Nella giornata di ieri ho avuto il piacere di essere intervistato da Elena Ferrato per il magazine digitale Incipit su un tema a me particolarmente caro, la convergenza tra la scienza della gamification ed il nostro patrimonio culturale. Da questo strano matrimonio sta prendendo piede un progetto come TuoMuseo per incentivare l’esplorazione e visita della nostra straordinaria Bellezza. Come è possibile sviluppare l’audience engagement, tanto richiesto dalle raccomandazioni europee, per creare nuove tipologie di interazioni col pubblico museale spesso lontano dai modi di raccontare, vivere, visitare il museo.
Invitando tutti a leggere l’intervista integrale, riporto alcuni passaggi per me significativi.
2) Che cosa distingue la Gamification in ambito museale da quella rivolta ad altri settori?
In molti paesi, dagli Stati Uniti all’Olanda, l’Engagement è una delle 5 missioni che ogni istituzione museale deve perseguire – di pari dignità con la didattica, la conservazione, l’esposizione e la valorizzazione. Ma, anche tralasciando la rincorsa ai modelli anglosassoni, il riallinearsi col pubblico è ormai diventato dirimente per un paese ad alta vocazione culturale e turistica come il nostro. Un dato su tutti aiuta a capire la discrasia in atto: se negli anni ’70 la curva massima di attenzione si assestava sui 5 minuti, negli anni 2000 si è scesi ad 1 minuto, con una proiezione a 10 secondi nei prossimi anni. È dimostrato, però, che siamo più predisposti ad imparare se lo facciamo divertendoci. In concreto significa, dunque, ripensare dalle fondamenta le modalità attraverso le quali impostiamo il percorso museale, il racconto delle opere, l’interazione col visitatore ed in generale l’essenza stessa del museo.
In particolare si parla di «audience development» e «audience engagement»: il gioco è uno straordinario attrattore soprattutto per quel target under 40 tendenzialmente meno incline a investire il proprio tempo (e denaro) in una esperienza culturale. Il gioco potrebbe fungere da gancio nel mondo digitale per esporre il brand museale a un nuovo pubblico e convincerlo a entrare fisicamente nel luogo. I musei, poi, devono imparare a confrontarsi con altre industrie culturali e creative (editoria, cinema, musica, videogames) contendendo loro il denaro -e soprattutto il tempo- dei possibili visitatori. Questo è possibile solo lavorando sulla creazione di un rapporto diretto che passi anche attraverso la visita fisica ma sappia andare oltre, coinvolgendoli nei momenti pre e post visita. Volendo fare un passo ancora più avanti, diventa importante comunicare e creare engagement anche con coloro che mai, per le ragioni più disparate, mai visiteranno il nostro museo.
Il visitatore diventa così un protagonista attivo, le sue scelte influenzeranno concretamente l’esperienza. A lui è affidata una missione speciale che potrà portarlo a osservare, immaginare, creare, esplorare opere e luoghi in modo fortemente emotivo.
3) Quale impatto economico potrebbe avere per una struttura museale un progetto costruito in questo modo?
Basti pensare che ogni anno solo in Italia si spendono circa 1 miliardo di euro in prodotti gaming. Un titolo ben pensato e sviluppato potrebbe auto-sostenersi garantendo al museo anche una nuova fonte di revenue, evitando così quella brutta sensazione di prodotto digitale che a distanza di pochi mesi è non più funzionante o in linea con i desiderata dell’audience.
Le esperienze organiche portate avanti in questo modo in giro per il mondo sono molteplici: penso ad esempio al programma «DMA Friends» del Dallas Museum of Arts per ingagaggiare con la gamification i propri visitatori, o a prodotti più ludici come «Race Against The Time» del Tate Museum per avvicinare all’arte le nuove generazioni e al contempo incentivarle alla visita museale.