E’ sempre più facile imbattersi nel vocabolo gamification. Seppure ancora considerato un fenomeno sperimentale in molti ambiti accademici o istituzionali, è ormai ingiustificabile ignorarlo quale che sia lo scopo per cui si intenda avvalersi del gioco nel proprio contesto aziendale o sicale.
Un aspetto sorprendente del fenomeno gamification è il suo aver appena compiuto i primi dieci anni di vita “ufficiali”, almeno da quando il termine iniziò a circolare su Google ad inizi 2010. Una disciplina quindi giovanissima ed un vocabolo da poco entrato nel lessico quotidiano e delle aziende.
Parlare di gioco, coinvolgimento, storydoing, punteggi, missioni, badge suonava non solo strano ma spesso controproducente nelle aziende. La cultura dominante era il totale distacco rispetto al gioco percepito come una attività da relegare ai più piccoli, una attività poco serie in contrasto agli obiettivi di business serissimi che una azienda si dava.
Quando è iniziato allora il grande cambiamento? Chi ha i meriti di aver affrontato lo status quo cercando di far germogliare la gamification (che ancora ovviamente non si chiamava così).
Con la dovuta umiltà introduciamo in questo articolo gli spunti storici che possono aiutare chi si avvicina a questo fenomeno a comprenderne l’evoluzione.
Il primo testo di riferimento che ha formulato una descrizione ampia del concetto di coinvolgimento dello studente nel percorso conoscitivo mediante la motivazione è probabilmente Thomas Malone, con il suo libro “What Make Thing Fun to Learn” pubblicato al MIT nel 1980.
Malone, con un approccio puramente scientifico e, se vogliamo, solo speculativo propose la domanda sul perchè i giochi per computer, in grande crescita in quel periodo (è l’anno in cui Atari invade i salotti con il suo VCS), attirino le persone con tanta facilità.
Il passo successivo del suo studio cerca di proporre degli spunti per sfruttare l’efficacia del videogioco a fini educativi, come supporto allo studio indipendentemente dalla materia affrontata.
Si parla insomma di meccaniche ludiche informatiche, allo scopo di classificarle e riutilizzarle come principi generici.
Lo spunto di Malone non rimarrà inascoltato in ambito universitario, propiziando commenti ed interventi di altri teorizzatori sull’onda del fascino dilagante dell’idea di computer come “compagno dell’uomo”.
La Human Computer Interaction è il primo ambito semi industrializzato in cui queste teorie trovano applicazione, nel tentativo di sostituire i criptici listati comprensibili solo a programmatori, con interfacce visive, almeno minimamente intuitive, in cui l’utente può immedesimarsi: sono state poste le basi del concetto di avatar.
In questa decade il governo americano spingerà molto la sperimentazione scolastica introducendo giochi come supporto ad attività studentesche.
E’ il caso di Math Blaster, creato dall’educatore Jan Davidson nel 1983 per offrire sfide in forma di gioco arcade che esercitassero le capacità matematiche. Lo schermo propone problemi matematici di vario livello e il giocatore deve sparare sulle risposte corrette. Un editor permetteva agli insegnanti di rielaborare i quesiti.
Oggi Math Blaster appare un concetto infantile e basilare, ma allora fu rivoluzionario, tanto da attirare, che ci rediate o no, molte più critiche che elogi da parte di tutto l’establishment educativo che voleva vedere in un gioco solo la futilità e la ripetitività, cieco ai concetti di engagement, divertimento e riconoscimento immediato del risultato (cosa inaudita per professori che gestivano le correzioni e l’attesa dell’esposizione dei voti come un’imprescindibile imposizione di ansia, timore reverenziale e autorità).
Praticamente il potere intoccabile e la figura distante e seria dell’insegnante veniva scardinata da un “futile gioco”.
Stiamo vivendo l’infanzia di una rivoluzione che lentamente dovrà evolvere introducendo concetti più maturi quali lo storytelling, poi visto nel seguito di Math Blaster ed in altri videogiochi basati sul ragionamento e la logica.
Nel 1985 Chris Crawford realizza su Macintosh e successivamente computer Amiga il grande classico Balance of Power, costringendo una parte della comunità di giornalisti e scrittori “impegnati” a interrogarsi su come il videogioco possa essere uno strumento molto più veloce e coinvolgente per l’utente attraverso il concetto di storytelling vissuto e quindi modificato attivamente, anzichè sequenziale tipico dei libri di testo.
Negli anni 2000 possiamo individuare l’inizio dell’applicazione della gamification ad ambiti socio culturali estesi e non più solamente speculativi.
Le prime attestazioni del termine gamification risalgono al 2002 stando ad un commento web pubblicato da Nick Pelling. Il programmatore di videogiochi inglese, con all’attivo decine di titoli dal Commodore 64 alla Pla-ystation 2, rivendica la primogenitura del termine e Wikipedia sembra accordargli tale titolo sebbene postdatando al 2004. Si rimanda al nostro articolo Storia della Gamification per approfondimenti.
Si ricorda per esempio l’associazione Games for Change introdurre nei giochi informazioni sugli aspetti sociali e culturali dei conflitti bellici.
Alla fine del millennio è matura ormai l’introduzione della gamification in ambito aziendale tramite punteggi e badges, grazie ai pionieri di Bunchball, che offrono soluzioni di training aziendale motivazionale.
Internet alle soglie del decennio attuale avrà il compito di esplodere la discussione su questi metodi grazie alla sua viralità, soprattutto con la storica conferenza tenuta dal game designer Jesse Schell al DICE (Design Innovate Communicate Entertain) 2010 che sdogana la pointification da cui poi nascerà una scienza più compiuta che prende il nome di gamification.
Nel 2011 a San Francisco si tiene il primo Gamification Summit e lo Oxford Dictionary dovrà prendere atto ed aggiungere Gamification nei neologismi del 2013.
In Italia è il game designer Fabio Viola ad introdurre il termine dedicandovi il primo libro italiano sul tema, Gamification – I Videogiochi nella Vita Quotidiana ed inaugurando il blog Gameifications.com entrambi nel 2011.
Tutto il resto non è più storia ma attualità.
Ci sono naturalmente molte applicazioni e molti studiosi non citati in questo articolo che hanno dato un fondamentale contributo all’evolversi di questo fenomeno, ma i limiti evidenti di questo contesto ci impongono di ricordare come abbiamo voluto solo fornirvi degli spunti storici per incentivare la vostra curiosità e stimolarvi, se vorrete, a commentare voi stessi errori o dimenticanze con altre citazioni in commento in questo blog.