Quando nel 2010 mi avvicinai in maniera sistematica alla Gamification, dapprima scrivendo il libro “Gamification – I Videogiochi nella vita Quotidiana”, poi lanciando questo blog ed infine lavorando con diverse aziende per ripensare le loro esperienze ricevetti molte critiche da membri della game industry. Era inconcepibile l’idea di poter trasferire all’esterno il bagaglio teorico e tecnico che il game design negli ultimi 40 anni ha accumulato, adducendo varie spiegazioni a volte legate alla terminologia “gamification” a volte prendendo ad esempio presunte storture nella schematizzazione di meccaniche e dinamiche gaming iper semplificate per essere rese accessibili a tutti. Guardando a ritroso penso fossero solo paure, ingiustificate, legate alla perdita di un sapere esclusivo a favore di una massificazione (che non nascondo possa a volte portare ad una banalizzazione) e la consapevolezza della necessità di rimettersi totalmente in gioco ampliando il proprio bagaglio verso materie quali psicologia, marketing, scienze comportamentali e user experience.
Bisogna partire dall’idea che le soluzioni di gamification non vengono utilizzate dagli utenti perchè motivati dal brand o o desiderosi di risolvere il problema della povertà nel mondo, sarà la qualità dell’esperienza/interfaccia game like a motivare il “giocatore” verso l’adesione volontaria. Creare esperienze qualitative per i giocatori dovrebbe essere il mandato di ogni game designer e quindi non vedo perchè non sia legittimo allargare il proprio campo di azione anche verso progetti dove vi siano anche obiettivi esterni rispetto al puro creare entertainment.
Alcuni dati miscellanei riferiti al 2013/2014:
- Il 59% della popolazione utilizza videogiochi
- L’età media di chi acquista videogiochi è 35 anni
- Il 26% dei giocatori è over 50
- Il 52% dei giocatori è maschio, il 48% è femmina
- Fatturato 2013 industria videoludica 93 miliardi di dollari
- Il 97% degli americani tra 12 e 17 anni utilizza videogiochi
Questi freddi numeri apparentemente ci guidano verso l’immagine di una industria in crescita e in grado di generare revenues, ma è un aspetto che ora non ci interessa prendere in considerazione. Ci dicono anche la capacità di penetrazione in larghissime fasce di popolazioni sempre più trasversali e molto diverse rispette allo stereotipo comune. Se per i nati dopo il 1980 i videogiochi sono il medium dominante, per i nati dopo il 2000 sono il medium egemone. Una così forte esposizione ai videogames, a scapito diretto di televisione, editoria, cinema, musica, ha dei profondi riflessi sulle aspettative che queste persone hanno verso altre interfacce. Spendere in media 20 ore a settimana dinanzi ad interfacce gaming, sta abituando milioni di ragazzi e ragazze ad aspettarsi meccaniche, posizionamenti di bottoni, flusso di esperienza in ogni altra interfaccia interattiva. Mi aspetto di ritrovare in siti web e piattaforme mobile meccaniche, interazioni sociali, posizionamento delle opzioni sperimentate nella mia vita videoludica. In generale mi sento di affermare che le persone si aspettano user interface che rendono l’interazione molto più simile ad una esperienza di gioco rispetto al passato.
I videogiochi sono delle “Emotional machine” non perchè sono giochi (va da se che non tutti i giochi risultano “fun” a causa del loro cattivo design) , bensì perchè riescono a ssuscitare piacere ed emozioni di varia natura nel giocatore dando vita ad un rapporto di engagement. I game designer possono insegnare a conoscere le relazioni tra design e p
Ciò premesso, I videogiochi hanno la capacità di risolvere problemi reali nel mondo reale riuscendo più facilmente e con più efficacia rispetto a interfacce non gaming applicate allo stesso conteso. Con questo no
Cosa aspettiamo a introdurre negli insegnamenti di user experience una componente di game/gamification design e viceversa? Se l’obiettivo comune è quello di creare la migliore esperienza utente possibile, è necessario contaminare i due bagagli culturali per dar vita a super engagement experience nella vita quotidiana