Behavioural Design

Il ruolo degli occhi nell’Engagement e Acquisto

 

Ogni secondo che un videogiocatore spende all’interno di un gioco free to play è una opportunità di vendita per lo sviluppatore. Eppure molti degli attuali giochi non sono ancora strutturati per tracciare ed analizzare il percorso ed il tempo speso in ogni singola area/tab perdendo una mole di informazioni utilissime alla monetizzazione. La conseguenza è che molti secondi vengono letteralmente sprecati impedendo al giocatore di esprimere al meglio il suo potenziale economico perché noi a monte non gli rendiamo facile il processo.

Conoscere i Big Data interni al gioco significa poter organizzare al meglio il flow di navigazione diminuendo gli steps necessari per arrivare da un punto A ad un punto B, cancellando tab e aree di scarso peso in termini di monetizzazione ed in generale ottimizzando il rapporto tra durata di un sessione di gioco/ARPU. L’industria retail tradizionale da tempo ha iniziato a ragionare su questo problema partendo da un dato drammatico: circa l’80% del tempo speso in un grande centro commerciale non produce alcun reddito per la catena. In questo ambito ci sono problemi che non sono molto lontani dalla realtà gaming: tempo necessario per spostarsi all’interno dell’area, localizzazione del prodotto che ci serve, file in alcune zone (area salumi, pesce), attrito nel pagamento (cash, aree self service, carte varie) etc etc.

Tanto in un mall quanto in un videogioco il percorso dell’utente dovrebbe seguire tre passi conseuquenziali. Dapprima l’esposizione del prodotto al consumatore (quindi un giocatore che entra nel nostro gioco o un consumatore che entra nel Mall), poi una fase di engamenet nei videogiochi e stop dinanzi ad un prodotto del consumatore ed infine la transazione economica.

In questo paradigma gli occhi giocano un ruolo centrale. Sono loro inizialmente a guidare il nostro corpo / polpastrelli nell’esperienza all’interno della (game) area.  Sempre grazie a loro che si generano le prime impressioni sulla bontà visiva di un prodotto/gioco.  Gli occhi sfogliano migliaia di prodotti nel grande magazzino per poi posare l’attenzione solo su alcuni di essi. Al pari nel gaming essi vagliano centinaia di virtual items, decine di icone e tab per focalizzarsi solo su alcune.

E dagli occhi partono gli impulsi al cervello con l’imput a processare l’acquisto dell’item prescelto.

Cosa vedono gli occhi in un centro commerciale

Fin qui tutto sembra logico e poco utile nell’ottimizzazione della user experience di un nostro prodotto. Negli anni l’industria retail ha messo a punto degli strumenti di indagine molto sofisticati, una camera posta al livello visivo di un utente ha aiutato i ricercatori ad entrare nel campo visivo dello shooppers individuando alcuni patterns generali

1)      Il processo di acquisto è estremamente veloce. Su un’area con centinaia di oggetti similari, l’occhio in pochissimi secondi individua quello giusto e trasmette al cervello l’imput di inserirlo nel carrello.

2)      Una eccessiva complessità dell’offerta (prodotti diversi tra loro messi in contiguità) rende difficile la scelta

3)      Una eccessiva quantità di oggetti rende quasi impossibile la scelta. Il Dottor Barry Schwartz nel suo libro “The Paradox of Choice” cita un esempio esemplificativo che trova riscontri anche nella mia attività in ambito gaming. In un negozio è stata creata un’area per la degustazione di marmellata. Ad un primo campione di avventori è stata offerto un assaggio di sei tipologie di marmellata, ad un secondo cluster ben 24 tipologie.  Nel primo clusters sono il 3% ha poi acquistato un barattolo, nel secondo il 30%. Una differenza abissale spiegabile con “la decisione di non decidere” dettata dalla troppa scelta. Troppi prodotti mandano in panico i nostri occhi/cervello rendendo quasi impossibile la comparazione che è il processo che spesso precede l’acquisto.

4)      L’attenzione nei mall è attratta da segnalatori, cartellini di prezzo, espositori ed altri stratagemmi.  Guiness, in collaborazione con l’agenzia ID Magasin ideò anni addietro delle speciali alette in cartoncino che sporgevano per una ventina di centimetri dagli scaffali dove erano presenti i suoi prodotti. Una forma non lineare con evidenti richiami al brand venne collocata in una serie di esercizi commerciali ed il comportamento dei passanti venne tracciato mediante l’ausilio di filmati, questionari ed eye tracking systems. Questi “espositori” modificarono totalmente i behaviors rompendo la linearità delle scaffalature dell’area birra & wine dei centri commerciali campione. I risultati di questo test han dimostrato un aumento delle vendite del 24%. A beneficiare non è stato solo il singolo brand, tutta l’area ha visto crescere il fatturato del 4% e l’area birra del 10%.   Nei videogiochi questo è ampiamente utilizzato ma sicuramente migliorabile.  Animazioni, frecce che invitano a cliccare un determinato bottone, effetti di mouse over, trasparenze, illuminazioni speciali sono pratiche utili per fermare l’attenzione del giocatore su una opzione piuttosto che un’altra.

5)      Difficilmente gli occhi effettuano calcoli mentali. Ne ho scritto spesso, è possibile giocare su promozioni con % di peso o sconto che potrebbero anche non riflettere la realtà. Nei videogiochi questo avviene sempre, le pop up che presentano offerte speciali nell’acquisto di moneta virtuale presentano spesso indicazioni con % di sconto pazzesche ma che non riflettono assolutamente lo stato dei fatti. Ma questo poco importa, l’utente al massimo effettua paragoni relativi e non assoluti (Decoy Effect) col risultato che molte di queste promozioni sortiscono boost reali.

6)      Gli occhi sono portati, può sembra paradossale, a reagire poco alle scritte. Assorbono molto più facilmente colori, forme, immagini. La lezione nel gaming è evitare di scrivere lunghe background storie testuali, di riempire sezioni con lunghi caratteri esplicativi. Emozionare l’utente con immagini e colori per istruirlo in qualcosa anche a scapito di perdere qualche pezzo di informazione. L’utente vuole giocare non imparare!

7)      Le comunicazioni (display, annunci, volantini) al’interno dello store funzionano pochissimo e sono scarsamente assorbite. Lo stesso nei videogiochi, è difficile trovare il modo per comunicare qualcosa all’utente (newsletter, area news etc). Il posto migliore nel punto vendita è direttamente sullo scaffale, precisamente sul suo bordo. Nei giochi l’informazione dovrà essere collegata direttamente al campo visivo del giocatore. Un esempio è la soluzione di interfaccia utilizzata in sempre più giochi dove passando il mouse sull’avatar del giocatore la sua cornice si riempie di iconcine ognuna con una sua call to action.

8)      L’entrata di un centro commerciale è un momento nevralgico per le vendite. Dall’ingresso tutti dobbiamo passare, contrariamente ad aree interne, qui spesso sono ubicati i cestini da andare a prendere e spesso è qui che ci fermiamo per consultare la nostra lista della spesa prima di iniziare il viaggio. In definitiva sono molti i secondi che spendiamo in quest’area ed è per questo che sempre più centri commerciali iniziano ad ubicarvi aree promozionali. Da circa un anno nel punto Carrefour dove sono solito servirmi l’ingresso è stato riempito con un’area larga 5 e lunga 20 metri piena di prodotti in promozione. Essi vengono turnati (alimentari, bevande, merende, prodotti per la casa…) ogni 7 giorni per dare un continuo senso di novità e sorpresa. In molti giochi essa è paragonabile alla Game Lobby che rappresenta il primo contatto cruciale col potenziale giocatore. In ottica monetizzazione essa offre l’accesso diretto alla pagina di monetizzazione e sempre più spesso riporta offerte speciali ed uniche tramite pop up o tab ben visibile.

 

Processing Fluency: Semplicità nel Design

Parlo sempre più spesso di Emotional Design come disciplina che raccoglie decenni di studi teorici e pratici in ambito gaming (gamification), psicologia, neuroscienza e scienze comportamentali. Questi campi, ad oggi lontani gli uni dagli altri, tanto possono insegnarci nel processo di disegnare una esperienza basata sull’insorgenza di emozioni nell’interlocutore al punto da stimolare/creare/modificare comportamenti: atto di acquisto, fidelizzazione, engagement, collaborazione etc etc.

Una delle sfide più avvincenti per un game designer è dar vita ad un gameplay mai troppo facile o troppo difficile in relazione alle abilità acquisite dal giocatore. Tenere ingaggiato qualcuno nel sistema è complesso,  il design messo in campo dovrebbe evitare, quasi sempre, di generare emozioni come frustrazione, ansietà o noia. L’esperienza sul campo dell’industria dei videogiochi ha evoluto gli studi teorici dello psicologo Mihály Csíkszentmihályi incentrati sul Flow, flusso o confort zone nel quale immergere l’utente per creare engagement. Per approfondimenti vi invito a leggere un mio specifico articolo sul Flow.

Due esempi di esperienze ben strutturate per creare engagement

Questa immagine, una delle tante attinenti al tema, schematizza il viaggio del giocatore sempre all’interno del flow channel. Il designer è riuscito a bilanciare l’esperienza mantenendo un rapporto positivo tra livello di sfida e livello di abilità. Lo schema in basso dei due è quello teoricamente migliore perchè in grado di creare picchi di sfida alternati a momenti di stasi sempre all’interno di una confort zone. Per dare una idea concreta pensiamo all’horror game Silent Hill. Momenti estremamente carichi di emozioni ed eccitamento (l’apparizione di un nemico, il disvelamento di un indizio, il progressivo avvicinarsi di un rumore, l’infittirsi della nebbia) si alternavano a fasi di “relax” incentrate sulla pura esplorazione. Questi continui picchi alti e bassi hanno contribuito alla creazione di un legame viscerale tra prodotto e consumatore.

La facilità o difficoltà con la quale assimiliamo qualsiasi stimolo è chiamata in psicologia PROCESSING FLUENCY. E’ un effetto con profonde ripercussioni in ambito di design, marketing ed advertising e ci spiega come la nostra mente reagisce di fronte ad imput catalogati come semplici o difficili da raccogliere.

Due distinti gruppi di studenti universitari americani sono stati sottoposti a due pubblicità simili ma non identiche promosse da BMW:

GRUPPO 1: “Bmw o Mercedes? Sono tante le ragioni per scegliere BMW. Indicane 10!”

GRUPPO 2: Bmw o Mercedes? Sono tante le ragioni per scegliere BMW. Indicane una!”

I ricercatori, guidati da Michaela Wanke, hanno scoperto qualcosa di molto interessante a seguito di un questionario sottoposto ai due gruppi circa le preferenza tra le due marche soprattutto in relazione ad un possibile acquisto futuro.

E’ emerso che il gruppo 1 è meno incline a preferire/acquistare una BMW rispetto al gruppo 2. Ma come mai questo differente comportamento di fronte a due pubblicità similari in cui a cambiare è solo l’ultima sentenza?

La difficoltà nell’elaborare 10 motivazioni pro BMW ha instaurato una associazione mentale negativa tra utente e marchio. Di contro il gruppo 2 è riuscito facilmente ad individuare almeno una peculiarità che il competitor non ha con un processo mentale molto più intuitivo e lineare.

Questa è la teoria della “Fluency” applicata al marketing, rendere facile  la preferenza aiuta la propensione del soggetto al brand. Capire quali sono i fattori che determinano una azione o il suo deferimento ha profondi impatti sulle strategie di marketing.

Ad un gruppo di studenti universitari è stato chiesto di completare un sondaggio strutturato come segue:

– Quante matite puoi comprare con 1 dollaro?

– Quante puntine da disegno puoi comprare con 1 dollaro?

– Quante graffette puoi comprare con 1 dollaro?

Gli studenti sono stati divisi in due gruppi, al primo è stata assegnata la classica banconota da un dollaro, mentre al secondo una moneta da collezione anch’essa dal valore di un dollaro.

Il gruppo A ha ritenuto di poter comprare maggiori quantità di quei 3 oggetti rispetto al gruppo B. La semplicità con la quale si processano i dati, ancora una volta, influisce sull’esperienza di acquisto. Più ci si trova in una confort zone (banconota standard) più è FLUENCY il processo decisionale rispetto ad una situazione nuova e inattesa (vecchia moneta da 1 dollaro).

Semplicità diventa una parola chiave da perseguire nel lancio di un nuovo prodotto/brand. Diversi studi dimostrano che noi umani ci leghiamo/ingaggiamo più facilmente a nomi e parole semplici da pronunciare e memorizzare rispetto a quelle complesse.

Gli scienziati sociali Alter e Oppenheimer hanno studiato il rapporto tra la Fluency del nome e le performance (ad 1 giorno, 1 settimana, 6 mesi ed 1 anno) di 89 società che si sono quotate tra il 1990 ed il 2004 al New York Stock Exchange.

Un ipotetico investitore con 1000 dollari collocati in azioni nelle 10 aziende coi nomi più semplici e lineari dopo un anno avrebbe guadagnato $333 rispetto ad un collega posizionato sulle 10 aziende coi nomi meno fluency.

E’ paradossale, ma la facilità con cui si scrive o si pronuncia il nome di una azienda, il suo acrononimo e la capacità di immaginare/assimilare il logo sono driver importanti nei behaviors dei nostri interlocutori.

 

Bonus Bonanza ed Endowed Progress nei reward schedules

Uno degli aspetti dell’essere umano che più mi incuriosisce è il costante desiderio di esser premiati, un driver motivazionale potentissimo nello stimolare ed indurre comportamenti. Intere industrie sono nate su questo presupposto, “loyalty programs” e “gambling” su tutte. Dopo tanti anni spesi nei videogiochi tradizionali e in aziende di gioco “for money” ho imparato la potenza che la condizione operante può avere negli individui sotto forma di contigenza, rinforzo (premio) e risposta. Il premio, sia esso di tipo economico diretto (gambling), economico indiretto (loyalty programs) o psicologico (videogiochi), aiuta spesso l’insorgenza o l’ampliamento di un comportamento scientificamente voluto dal designer.

Esistono 5 differenti tipologie di schemi premianti

Quello che non molti sanno è che esistono differenti schemi premianti (reward schedules), ciascuno dotato di una peculiare curva di frequenza e decadimento della risposta. Per una descrizione dettagliata degli stessi vi rinvio a due miei vecchi post qui e qui. Quello che è bene memorizzare, al di là dell’implementazione tecnica che è sempre bene affidare ad un esperto, è la possibilità di poter modellare il comportamento del consumatore utilizzando saggiamente l’uno o l’altro schema. Personalmente ritengo che il risultato migliore lo si ottenga quando più schemi vengono messi in atto per incentivare differenti clusters di utenza se non addirittura lo stesso individuo nel corso del suo viaggio nel sistema. Esistono schemi che aiuta l’insorgenza di un comportamento come il “Rinforzo Continuo” ed altri invece che aiutano terribilmente la fase di monetizzazione arrivando spesso a generare delle curve di dipendenza (Intervallo a Ratio Variabile). Ma non è questo l’obiettivo del post, andiamo avanti.

Siamo solitamente ritenuti a pensare che la gradazione del premio influisca direttamente sulla volontà/abilità nel compiere una azione. Maggiore sarà la stock option data ad un dirigente, maggiore la sua performance. Maggiore è il premio in un programma di fidelizzazione, maggiore sarà la partecipazione dell’individuo.

Una pubblicazione del 2009 dal titolo “Large Stakes and Big Mistakes” rivela alcune componenti, apparentemente illogiche,della mente umana. In diverse zone rurali dell’India una serie di individui vengono invitati a cimentarsi con una serie di 6 giochi, l’esito positivo porta come ricompensa tre differenti tipologie di premio: basso (1 giorno di salario), medio (1 mese) e alto (5 mesi). L’obiettivo dei ricercatori era quello di verificare l’intensità dello sforzo e la qualità profusa in relazione al premio ottenibile.

Le performance migliori saranno arrivate da coloro che saranno premiati col quantitativo maggiore?

La capacità di eseguire un task decresce a fronte di una possibile alta ricompensa

Assurdo ma vero. I partecipanti appartenenti al cluster con in palio un premio altissimo si sono comportati peggio delle altre due classi di individui. La pressione di poter guadagnare in pochi minuti ben 5 mesi di stipendio ha influito negativamente sulla capacità di ragionamento e completamento vincente del task. Solo il 20% di loro ha ottenuto la ricompensa agognata, contro una media del 35% delle altre due classi.

Applicato al mondo reale, questo esperimento ci aiuta a sfatare alcuni luoghi comuni attorno cui ruota la costruzione di numerose esperienze dai loyalty programs alla gestione degli stipendi e bonus da parte delle risorse umane.

Quando al consumatore/lavoratore è richiesto un qualche tipo di abilità cognitiva che coinvolge quindi componenti quali strategia, riflessione ed esecuzione l’over inflazione di premi (legge del Bonus Bonanza) porta ad un risultato controproducente. In concreto è spesso senza senso, se non dannoso, mettere in palio premi estremamente significativi o offrire premi produzione e stock option milionarie perché il pensiero del possibile guadagno diventa il deterrente principale all’avverarsi della condizione.

Di contro un alto incentivo è maggiormente stimolante all’interno di contesti meccanici come può essere l’avvitare bulloni in una catena di montaggio o fare sharing di un contenuto digitale. Su questo livello bonus maggiori producono quantità di lavoro maggiori nel breve periodo, sul lungo entrano in gioco contro fattori come la ripetitività del task e la mancanza di Meaning.

I reward economici restano un forte motivatore, ma sono fermamente convinto che sia arrivato il momento per iniziare a stratificare l’esperienza premiante diversificando le gradazioni e forme. Cresce e diventa economicamente significativa una generazione di individui cresciuta coi videogiochi in mente, esperienze in cui l’utente investe dei soldi senza mai ricevere un premio tangibile in cambio della fidelizzazione ed engagement espresso. In linea teorica sono tante le concrete tipologie di rewarding psicologico introducibili in un sistema gamificato tanto fisico quanto digitale:

  • Currency rewards: l’acquisizione di una risorsa spendibile nel gioco, solitamente moneta virtuale utile per acquistare nuovi prodotti o skills.
  • Rank Rewards: l’acquisizione del livello successivo. Può trattarsi di un passaggio dal livello 1 al 2 oppure da uno status bronze al silver.
  • Mechanical Rewards: l’acquisizione di statistiche migliorative in qualche parametro. s
  • Narrative rewards: Una sequenza di intermezzo o la scoperta di nuovi elementi della trama o background di gioco rappresentano un gustoso premio.
  • Emotional rewards: E’ un premio immateriale legato al regalare un virtual gift a qualcuno o comunque aiutarlo per progredire nel gioco.
  • New Toys: Lo sblocco di nuove funzionalità sotto forma di nuove armi o gadget che ampliano le azioni performabili dal nostro alter ego.
  • New Places: Lo sblocco di nuove aree da esplorare
  • Completeness: Completare al 100%  una progress bar o qualsiasi altra cosa sia caratterizzata da una percentuale di completamento.
  • Victory: Sconfiggere un avversario o superare una sfida

La scienza comportamentale  è in grado di insegnarci ancora tanto su come disegnare esperienze in cui la componente premiante è preponderante. Uno dei problemi comuni è vincere la barriera iniziale che tiene lontano un nuovo utente dall’aderire al nostro programma annuale di fidelizzazione. Molti riterranno difficile l’obiettivo da raggiungere (100.000 punti sono una soglia così alta e apparentemente irraggiungibile per ottenere il premio) a tal punto da scoraggiarsi prima ancora di iniziare.

Due ricercatori, Nunes e Dreze, hanno condotto un esperimento su un campione di 300 utilizzatori di un autolavaggio locale. Al primo gruppo è stata offerta una classica tessera punti che veniva punzonata ad ogni lavaggio. Al raggiungimento degli 8 scattava il reward composto da un successivo lavaggio a titolo gratuito. Al secondo gruppo è stata consegnata una tessera con 10 lavaggi da effettuare a pagamento in cambio di uno gratuito. I primi due erano già stati punzonati, per cui ambo i gruppi avevano come task 8 car wash. Stesso investimento di tempo, stesso investimento di denaro ed anche uguale reward.

L'Endowed Progress Effect studiato da Nunes e Dreze

Il risultato? Solo il 19% degli utenti del primo gruppo ha raggiunto il reward contro il 34% del secondo! Ed inoltre quelli partiti con 2/10 hanno impiegato 2.9 giorni meno degli altri per raggiungere il livello premiante!! Maggiori informazioni sono disponibili nello studio ufficiale Endowed Progress Effect.

Ebbene si, dare l’illusione che un programma sia già iniziato e necessiti solo di esser finito stimola maggiormente il consumatore rispetto ad una situazione da iniziare da zero. Il senso di completamento è uno dei driver principale (motivatore n.8 nel Motivational Design Framework). Uno degli errori tradizionali dei loyalty programs è dare l’idea palese di una lontananza del premio trascurando uno dei dati empiricamente visibile in ogni ambito. Un fixed ration reward schedule, comunemente usato nei loyalty programs, genera una curva di risposta alta solo all’approssimarsi del premio. Ipotizzando un set di pentole a 1000 punti, aumenterò la mia capacità di spesa solo una volta arrivato nei pressi di 900 punti e la ridurrò totalmente o quasi a 1001.

Cambiare una idea stereotipata di design è difficile, cento anni di storia sono difficili da superare nei loyalty programs. Ma migliorare è possibile sia in termini di forza della fidelizzazione che di partecipazione attiva riuscendo a raggiungere anche tutta quella platea di under 35 oggi sempre più estranea alle vecchie logiche premianti.

 

 

 

 

 

 

Il concetto di Meaning tra Gamification e Neuroscienza

I videogiochi, quando ben disegnati, sono straordinari tools in grado di motivare gli individui attraverso la generazione di emozioni e stati d’animo. Per lungo tempo questo know how è rimasto largamente rinchiuso all’interno della nostra industria. Ma cosa accadrebbe se 40 anni di game thinking, tecniche e teoria videoludica entrassero nel bagaglio di chi disegna qualsiasi tipo di esperienza, fisica e digitale?

Pur non essendo una scienza esatta l’arte di creare videogiochi, non è casuale che molti giochi anche ad alto budget non riescono a creare connessione con il target, ho deciso di creare il “Motivational Design Framework”, lo trovate in parte disseminato negli ultimi post in attesa di una presentazione slideshare organica che pubblicherò a breve, affinché funga da strumento standard per progetti dove le motivazioni ed emozioni diventano il driver principale per creare, stimolare, modificare i comportamenti umani.

Agire visceralmente su un individuo è un campo tanto complesso quanto rischioso. Se i videogiochi sono sicuramente in grado di offrire un sostrato di meccaniche e dinamiche è necessario guardare con attenzione il campo delle neuroscienze per una legittimazione anche teorica. In questo blog ho creto una specifica sezione, Behavioural Design, in cui cerco di sintetizzare alcune nozioni fortemente compenetrate col mio modo di vedere il design di una esperienza “Human Focus”.

Oggi vorrei riflettere insieme a voi su un concetto spesso citato nell’industria dei videogiochi ed in generale nello Storytelling, mi riferisco al termine inglese “Meaning”. Sin dagli albori del gaming, gli sviluppatori hanno speso creato una storia artificiale come sfondo alle azioni del giocatore. Quest’ultimo si ritrovava catapultato in un universo parallelo in cui indossava spesso i panni del salvatore del mondo, ogni suo gesto diventava epico perdendo ogni collocazione individuale per entrar a far parte di una dimensione collettiva. Dove ben costruito, questo senso più alto dell’azione individuale aiuta a creare una forte connessione emotiva aiutando il giocatore nell’immersione nel sistema. E’ una componente motivazione formidabile, difficile da costruire, ma a pieno titolo rappresenta il motivatore n.1 nel mio Motivational Design Framework.

Taito ha creato una storia epica per coinvolgere il giocatore di Arkanoid

Nell’evoluzione dell’industria dei videogiochi le tecniche per creare meaning sono cambiate profondamente. Ancora negli anni 80-90, il trasferimento del senso epico avveniva attraverso una schermata iniziale che svelava spesso il background e la missione del giocatore. Le ultime produzioni tendono a non disvelare sin da subito tutta la trama dando al giocatore il compito di dipanarla e modificarla in relazione alle scelte compiute (epic choices). Alle poche righe testuali di Arkanoid si contrappongono lunghe sequenze in computer grafica in cui scientificamente vengono svelati elementi utili alla comprensione.  Con Alan Wake i videogiochi hanno raggiunto un nuovo livello di storytelling dando vita ad una compenetrazione reale ed attiva tra gameplay e storia.

Remedy ha lavorato su una narrativa stratificata

Allontiamoci un attimo dai videogiochi, sebbene tutti coloro che si propongono come storyteller tanto avrebbero da imparare dall’analisi di un medium interattivo per eccellenza dove la storia concepita dal designer si confronta e si arricchisse con l’attività del fruitore. Quello che mi interessa analizzare è il processo mentale che porta l’utente ad immergersi in qualcosa di epico e con un senso superiore.

E’ il principio su cui è nato quello straordinario successo che è Wikipedia. Milioni di persone al mondo vi contribuiscono dedicandoci tempo e intelligenza a titolo totalmente gratuito. Ogni singola voce inserita, ampliata o modificata genera un valore collettivo, una indubbia utilità per tutto il genere umano che potrà beneficiare positivamente della nostra azione.

Nel 1963 lo psicologo animale Glen Jensen scoprì qualcosa di apparentemente illogico. Studiando il comportamento di 200 topi albini maschi scoprì che in larga parte  essi preferivano guadagnarsi il cibo attraverso l’esecuzione di alcuni task piuttosto che attingere direttamente da una vaschetta “gratuita” posta nella gabbia. Questo strano risultato è stato poi successivamente ritrovato in numerose altre specie animali contraddicendo l’idea comune evolutiva che gli essere animati tendono a voler conseguire il miglior risultato col minor sforzo possibile. Questa teoria del Contrafreeloading ci aiuta a capire quanto radicato nel DNA sia la necessità di dare un senso anche ad una esperienza come quella di nutrirsi.

Ma anche gli individui seguono i medesimi comportamenti animali?

Ariely, Kamenica e Preler hanno condotto un interessante esperimento pubblicato col titolo “Man’s Search for Meaning: The Case of Legos”. Due gruppi di studenti sono stati coinvolti in un esperimento all’intero di una università americana.  Entrambi avevano il compito di costruire dei piccoli robot utilizzando dei lego, per ogni pezzo completato una paga che progressivamente diminuiva di 50 centesimi fino ad azzerarsi togliendo ogni incentivo di tipo economico.

Il primo gruppo ha lavorato in un ambiente “meaningful”, ogni pezzo costruito finiva di fianco quasi a formare un piccolo museo. Il lavoratore poteva osservare il frutto del proprio duro lavoro provando un senso di piacere nell’aver completato con successo la missione. Il secondo gruppo, invece, dopo aver assemblato il robot se lo vedeva distrutto con la spiegazione che non avevano sufficienti pezzi e quindi era necessario riutilizzarli. In questo caso entrava in gioco un senso di frustrazione nel vedere minuti/ore di lavoro svanire in pochi istanti.  Una esperienza priva di ogni senso che tende ad essere stoppata pur in presenza di un incentivo economico.

Risultati esperimento contesto significativo vs non significativo

Il risultato? Il primo gruppo ha costruito in media 10.6 robot ricevendo un corrispettivo di $14.40 mentre il secondo ha costruito in media 7.2 robot ricavandone $11.52. Mentre il 65% di coloro che hanno operato in un ambiente “significativo” hanno continuato a costruire robot anche al raggiungimento di un fee inferiore ad un dollaro, solo il 20% dei meaningless hanno continuato a cimentarsi.

Che cosa impariamo? Se inseriamo all’interno di un contesto significativo una persona che ama fare quella azione (qualunque essa sia) il comportamento sarà enfatizzato influenzando positivamente anche il livello di sforzo nell’atto. Di contro se lo stesso cluster di persone viene inserito in un contesto scarsamente significativo la gioia nel compiere l’atto sarà attenuata se non addirittura repressa.

 

 

 

 

 

Motivational Design Framework: Motivare Utenti Regolari Parte 4

Penultimo appuntamento dello speciale in cinque parte sul Livello 5 del Motivational Design Framework incentrato sul viaggio del giocatore. Dopo aver esaminato la fase del Visitatore e Nuovo Utente, oggi mi soffermerò su un momento spesso trascurato in fase di progettazione e design dell’esperienza, la cui importanza reputo vitale perché è proprio in questo periodo di tempo che avviene il processo di fidelizzazione dell’utente/giocatore al nostro sistema. Io la chiamo fase “Utente Regolare”, ma nella letteratura internazionale è spesso associata a nomi come Staffolding o Grinding. In generale è il lasso di tempo in cui si sperimentano almeno una volta tutte le features, opzioni e missioni messe a disposizione dallo sviluppatore generando le prime condizioni di vittoria

La terza fase del viaggio del giocatore: Utente Regolare

Il gamification designer dovrebbe porsi una serie di domande prima di stilare un flusso di navigazione in linea con le aspettative di questo segmento di utenza.

Come facilitare l’esplorazione di ogni componente del sistema? Come garantire una sufficiente varietà di azioni per non rendere noiosa la permanenza? Come rendere gli obiettivi raggiungibili mantenente una proporzionalità del livello di sfida?

Il mondo dei videogiochi ha sviluppato una serie di best practice per aiutare la permanenza nel sistema dei Regolari e favorirne il passaggio verso lo step conclusivo “Veterani”. In molti social/mobile game le missioni vengono continuamente aggiornate, ponendo il giocatore sempre di fronte a nuove sfide. Terminato un task, ne viene generato immediatamente un altro conferendo un continuo senso di novità e freschezza fondamentale per tenere vivo l’engagement nel lungo periodo.

Dead Trigger offre missioni sempre aggiornate per tenere vivo l'engagement

In Dead Trigger, sparatutto in prima persona in stile survival horror, la mappa di gioco si popola continuamente di nuove missioni (cerchio rosso) rendendo praticamente endless l’esperienza. Gli sviluppatori hanno colto nel segno anche per altre dinamiche particolarmente utili per generare uno Sticky Factor elevato. Ah per sticky factor si intende una delle metriche più interessanti nei prodotti data driven, il rapporto tra gli utenti attivi mensilmente (DAU) e gli utenti attivi giornalmente (MAU). Il dato che ne esce sintetizza splendidamente la capacità che il nostro sistema ha di attrarre frequentemente i customers.

Dicevamo di Dead Trigger, oltre a contenuti sempre aggiornati offre anche una varietà di missioni. Mille missioni tutte simili tra loro per obiettivi, ostacoli e condizioni di gioco finirebbero per risultare noiose, ed invece ecco intervenire diverse tipologie di challenge rappresentate iconoplasticamente da simboli diversificati sui cerchi (teschio, cerchio…). E’ facilmente intuibile il grado di appealing generato da questa semplice idea.

Il portale ShopWithYourFriend ha avuto per un periodo limitato di tempo, ed in parte la ha ancora, una strategia in grado di soddisfare i suoi utenti regolari. I contenuti editoriali venivano costantemente aggiornati offrendo sempre nuovi stimoli e curiosità al target femminile. Inoltre un complesso sistema di badge garantiva indirizzava i comportamenti verso l’esplorazione delle varie aree/features del website offrendo al contempo una progressività nel percorso di discovery. Infatti i badge erano internamente gerarchizzati in livelli: Stringi almeno 1 amicizia per sbloccare il Badge Socializer Livello 1, stringi ameno 5 amicizie per sbloccare il Badge Socializer Livello 2 e così via.

Inoltre SWYF incarna una ulteriore best practice utilissima per i nostri Loyalties customers,  il senso di community. Gli utenti che hanno compreso il senso di quello che stanno facendo iniziano ad aver bisogno di strumenti di confronto con gli altri partecipanti al viaggio: forums, chat in-game, buddy list sono alcuni degli strumenti utili per rinforzare la permanenza nel sistema.

Stimolare la permanenza nel sistema dei loyalties customers con contenuti aggiornati e nuove sfide

Sempre in questa fase è opportuno stimolare il senso di Autonomia conferendo all’utente/giocatore un certo grado di libertà di scelta che gli dia l’idea di esplorazione libera pur all’interno di un viaggio prestabilito. Tecnicamente significa offrirgli scelte multiple tra diverse missioni o diversi approcci per raggiungere un medesimo obiettivo.

Tornando al nostro ormai famoso ottagono esso sarà impegnato in tutte le sue facce, essendo questa una fase che potenzialmente riesce a toccare tutti gli 8 motivatori sebbene in misure differenti. Il n.2 Crescere/Esprimersi ed il n.8 Completare sranno i preponderanti così come già visto per un Nuovo Utente. Si differenziano invece le meccaniche gaming utilizzabili per incentivare questi 2 motivatori: avatar, discovery, combo, chain schedules, premi a ratio fissa (invece che premio continuo), achievement, badge. Rivestono un peso significativo anche i motivatori n.3 Pressione Sociale e n.4 Imprevedibilità e Sorpresa.

Livello 5 Motivation Design Framework: Utente Regolare

Per chi avesse perso i capitoli precedenti: PARTE 1    PARTE 2  PARTE 3

Neuromarketing: Bonus Pack vs Sconto

Accompagnare un cliente all’atto di acquisto non è mai semplice. Negli anni le grandi catene commerciali ed i siti web hanno migliorato notevolmente l’esperienza lato utente per rendere il meno traumatico possibile questo momento. Nell’ultimo articolo Neuromarketing: come eliminare il dolore nell’atto di acquisto  ho cercato di spiegare cosa realmente accade nel nostro cervello nel momento della transazione economica ed alcune possibili strade, non sempre percorribili, per abbattere o quanto meno alleviare questo dolore mentale. Nel nostro DNA, in misura diversa da soggetto a soggetto, vige la Loss Avversion ovvero la paura di perdere qualcosa che già possediamo o che, a torto o a ragione, reputiamo nostra. Aprire il portafoglio ed estrarre delle banconote è il massimo del dolore ed il solo pensiero spesso ci spinge a rinunciare o a rinviare un acquisto. L’invenzione dei bancomat, e ancor più delle carte di credito che procrastino al mese successivo l’addebito, ha attenuato questa avversione a perdere ma ancora oggi la stragrande maggioranza delle offerte commerciali riportano in grande evidenza un prezzo, e tanto basta per attivare alcune aree del nostro cervello deputate al dolore.

Bonus pack per incentivare l'acquisto in Farmville 2

Coloro tra noi che hanno sperimentato qualche gioco mobile/social/online di nuova generazione si saranno imbattuti nella schermata di acquisto della/e moneta virtuale. Osservando bene la schermata superiore, riferita a Farmville 2 versione Facebook con oltre 10milioni utenti attivi mese, emergono in rosso alcune scritte. Lo sviluppatore Zynga incentiva l’acquisto dei pacchetti più costosi offrendo al giocatore una percentuale extra di prodotto (in questo caso Banconote Farm) crescente in relazione all’entità della spesa.

Se può sembrare logica la scelta di puntare sui pacchetti premium, non è altrettanto chiara a tutti la logica dietro all’offerta di un “bonus pack”. Perchè adoperare questa tattica invece di un più comune “sconto” sul prezzo finale? Siamo maggiormente mossi da uno sconto a fronte di una quantità standard di prodotto o da una quantità extra a fronte di un prezzo standard?

 

Ovviamente questa strategia non è confinata al mondo virtuale. Entrando in qualsiasi catena della grande distribuzione gli scaffali sono piedi di offerte come quella dell’immagine sovrastante. Formule come “50% gratis” o “20% in più” sono ormai comunemente utilizzate dai brand. Ma perchè accade tutto questo, in che modo offrire prodotto extra aiuta le vendite?

Innanzitutto notiamo una cosa, in entrambe le immagini vengono utilizzate delle percentuali e non dei numeri immediatamente raffrontabili. Cosa significa 20% extra? Il nostro cervello non riesce immediatamente a cogliere il valore assoluto dell’offerta, ma semplicemente una progressione numerica logica per cui un 20% extra è peggio di un 25%. Solo rimanendo concentrati e svolgendo dei calcoli è possibile risalire al beneficio economico tangibile. A fronte di un 1kg di biscotti che normalmente costa 5 euro, regalare il 20% di prodotto significa elargire 200 grammi che traslati in euro sono €1 di omaggio. Un calcolo non complessissimo, ma che non tutti hanno tempo e voglia di fare.

Facciamo ora un passo indietro ed esaminiamo un interessante articolo scientifico pubblicato nel 2012 sul Journal of Marketing dal titolo “When More is Less: The Impacto of Base Value Neglect On Consumer Preferences for Bonus Packs over Price Discounts” a cura di ricercatori dell’Università di Minnesota.

L’esperimento, uno dei tanti, è stato condotto presso un piccolo negozio americano ed il prodotto prescelto è stato una confezione di sapone liquido Fruits & Passion da 270 ml prezzata normalmente $13.50. Lungo diverse settimane il prodotto è stato oggetto di un test con 2 differenti tipologie di promozione:

Per 8 settimane sconto del 35%, quindi 270 ml venduti a 8,77 dollari.

Per 8 settimane bonus pack del 50%, quindi 405 ml venduti a 13.50 dollari.

Il risultato? Il bonus pack 50% ha venduto il 73% più dello sconto 35% Come è possibile che una riduzione significativa di prezzo non abbia maggior impatto di un prezzo lasciato inalterato? Il nostro cervello ragiona in termini di guadagno e perdita in modo spesso irrazionale.  In questo caso un guadagno in quantità è stato preferito ad una diminuzione in perdita. Se ci pensiamo bene offrire un – 20% di sconto, significa comunicare che stiamo abbassando la perdita futura dell’individuo alleviando solo parzialmente la sua Loss Avversion. Il segno meno è tangibilmente un indicatore di perdita. Contrariamente, offrire un bonus pack + 50% significa dare come primissima percezione una idea di guadagno materiale sul prodotto. Il segno più è tangibilmente un indicatore di guadagno.

Ma non è tutto. Il nostro occhio, e subito dopo il cervello, percepisce le percentuali in termini assoluti. Un packing con scritto 50% è palesemente più invogliante di uno 35% indipendentemente dal valore assoluto che quella percentuale esprime (teoria Base Value Neglect). Tutti coloro che non si soffermano a effettuare conteggi, saranno spinti a preferire quelle offerte con bonus pack che mediamente portano percentuali più alte rispette a quelle di sconto (per ovvie ragioni commerciali, non è facile dimezzare il prezzo di un prodotto mentre più semplice è raddoppiarne il peso avendo un costo per l’azienda inferire).

Ritornando all’immagine iniziale di Farmville, ora siamo in grado di dare risposte ragionate sul perchè di quella scelta. Zynga sfrutta questo principio di neuromarketing per incentivare le micro-transazioni nel suo gioco, eppure potrebbe fare ancora meglio. La parola Free/Gratis è terribilmente “brain friendly”, sono stati scritti libri illuminanti su come l’economia del FREE rivestirà un ruolo sempre più importante nelle nostre vite e l’impetuosa avanzata dei giochi free to play ne sono, forse, il più eclatante esempio su larga scala. Zynga dovrebbe sostituire il termine Extra con Free per aumentare ancora di più la conversion rate!

 

 

 

 

Neuromarketing: Come eliminare il dolore nell’atto di acquisto

Diverse volte abbiamo affrontato il tema del ruolo del cervello nei nostri processi decisionali. I videogiochi nascono per soddisfare differenti esigenze innate come socializzare, auto-esprimersi, collezionare, crescere umanamente ed i game designers hanno ben in mente come suscitare acquisti d’impulso soprattutto in titoli free to play. A fronte di una componente irrazionale rappresentata simbolicamente, e non solo, dal lato destro del nostro cervello ci ritroviamo costantemente a fare i conti con il nostro grillo parlante ubicato nell’area sinistra del cervello. Questa è la componente razionale, ogni singolo aspetto viene processato ed analizzato per giungere ad una scelta ponderata.

Uno studio condotto da George Loewenstein, professore di economia e psicologia alla Carnegie Mellon University, giunge alla conclusion che il peggior modo per vendere un prodotto è quello che spinge I consumatori a vedere il prezzo aumentare in relazione alla quantità consumata. Questo processo genera un dolore di tipo mentale o meglio delle aree del nostro cervello associate al dolore fisico.

 

In qualsiasi contesto ci troviamo, il comprare più e più oggetti (dal cibo ai vestiti) causa un immediato senso di dolore associato alla consapevolezza istantanea di quanto stiamo andando a pagare. Più capi inseriamo nel carrello maggiore sarà l’esborso, ognuno di essi rappresenta un piccolo dolore che spesso supera il desiderio di possedere/auto-esprimere causando l’abbandono dell’acquisto. Questa strana conformazione del nostro cervello spiega anche teorie come  “Loss Avoidance”. Istanza psicologicaè alla base dello straordinario successo delle carte di credito e dei prestiti, spesso utilizzati come parziale anestetizzante all’attrito generato dall’acquisto in contanti. La carta allontana il pensiero di una perdita diretta di qualcosa di nostro, rimandando in un secondo momento il prelievo dal conto corrente.

Non vi siete mai chiesti come mai sempre più aziende propongono servizi flat? Compagnie telefoniche, service provider, leasing automezzi e la lista sarebbe sterminata. Si è passati da piani tariffari in cui ogni singola componente aveva un prezzo (1 ora di connessione xx euro, ogni minuto di telefonata xx euro, nolleggio auto + navigatore + assistenza ciascuno ad xx euro)  a formule TUTTO COMPRESO che abbattono radicalmente il dolore psicologico della scelta di acquisto. Paradossalmente siamo maggiormente propensi a pagare anticipatamente per un servizio annuale a patto che sia una cifra unica e chiara, rispetto al pagare mese per mese. Proprio ieri il mio cervello ha agito così. Di fronte a varie offerte per l’acquisto di una chiavetta internet, ho optato per pagare anticipatamente per 12 mesi ben 199 euro a fronte di abbonamenti a consumo che sarebbero probabilmente risultati economicamente più svantaggiosi.

La componente irrazionale del sistema limbico svolge un ruolo fondamentale nella nostra esistenza ma siamo essere umani anche perchè la ragione riesce a mitigare gli istinti. Questa dicotomia si palesa anche attraverso la precorteccia frontale, area visibile anche nell’immagine alta. Possiamo immaginarla come un grande saggio, il punto in cui tutti gli stimoli confluiscono, vengono analizzati sulla base di esperienze e fattori esterni (ad esempio lo stimolo di comprare una borsa da 1000 euro ma la decisione di uscire dal negozio perchè quella spesa scombussolerebbe il budget mensile) e soddisaftti o meno. Nella Prefrontal Cortex avviene la pianificazione razionale, quel tipo di decisione che porta alcuni individui a scegliere un premio di 100 euro domani piuttosto che 10 euro oggi. L’emotività ci spingerebbe ad averlo subito, gratificare immediatamente attraverso un afflusso di dopamina associato comunque ad un premio ma la ratio individua che quello stimolo non è sicuramente quello maggiormente premiante.

 

Inutile dire che sempre più user experience e game designers hanno iniziato a sfruttare queste tecniche per guidare retention, monetizzazione, registrazione. Prendiamo ad esempio il portale Hot or Not, famoso sito di dating americano in cui l’utente viene catapultato direttamente nell’esperienza sin dal primo secondo. Dopo avergli consentito di visionare e votare alcuni ragazzi/e presenti nel database viene chiesto di registrarsi per non perdere tutto il “lavoro” svolto fin’ora. Questa paura di perdere il tempo speso fino ad allora è un grandissimo motivatore alla registrazione. Altresì in Farmville, lo sviluppatore ha creato un sistema in cui il non rientrare costantemente nel gioco causa la perdita del raccolto. Pur trattandosi di una perdita immaginaria, i giocatori sono psicologicamente portati a rientrarvi per non perdere qualcosa che considerano già loro.

Ma torniamo alla vita reale. Pensiamo ad esperienze come una corsa in taxi, molti di noi lanciano costantemente l’occhio al tassametro per tenere sotto controllo il conteggio degli euro aggiornato metro dopo metro. E’ una esperienza dolorosissima che mette a dura alcune aree del nostro cervello. Che risultati otterremo concordando preventivamente il costo della corsa, non sarebbe una esperienza migliore?

Ovviamente non sempre è possibile individuare strategie alternative al pagamento per singolo oggetto, si pensi alle gioiellerie. Per il proprietario è impensabile abbattere il dolore dell’acquisto, formule flat o all you can eat o prezzi standardizzati sono impossibili. Ma sono tanti i settori che hanno già imparato o potrebbero imparare questa lezione di neuro marketing. I concessionari sono diventati abili marketers nel proporre le vetture in vendita. Ancora fino ad una ventina di anni fa, recandoci nel punto vendita venivano stilati preventivi dettagliati con molteplici centri di costo: auto 30.000 euro, sedili in alcantara, 1000 euro, cerchi in lega 500 euro e così via. Questo era quanto di meno “brain friendly” possibile, non a caso oggi le offerte pubblicitarie non fanno altro che ricordare un unico prezzo aggiungendo l’importante dicitura “chiavi in mano”. Il prezzo include tutto, dagli optional alle tasse governative e persino periodi già pagati di assicurazione piuttosto che benzina.

Creare bundle è una strategià che può avere successo. Sappiamo come sia difficile, neurologicamente, vendere singoli prodotti ognuno contraddistinto da un suo pricing. Diventa molto più agevole creare dei bundle dove il prezzo di ogni singolo oggetto confluirà in uno unico.

Cambiando totalmente settore merceologico, il mondo della ristorazione ha sviluppato interessati strategie per cercare di vendere al meglio i propri coperti. Sono sempre più i ristoranti che adottano formule All You Can Eat dove è possibile mangiare la quantità che si vuole a fronte di un prezzo concordato. Questa formula taglia notevolmente i centri di dolore consentendo al consumatore di non badare a quanti pezzi di sushi o quanta pizza si sta ingurgitando. I centri di dolore da molteplici (il prezzo di ogni portata) diventano uno.

Altro esempio arriva dalla diffusione di ristoranti in cui si paga a peso. Non importa quale pietanza stai scegliendo, sia essa un primo, un contorto, un secondo o un dolce,  il prezzo è standard. Alla cassa si pagherà in base al peso. In molti casi questa formula è anti-economica per alcuni clienti che magari riempiono il piatto di cibi poco costosi (ad esempio patatine fritte), ma è talmente brain friendly da spingere molti a provare.

Ma un ristorante, o qualsiasi altra tipologia di negozio, focalizzato su prodotti di fascia alta come può migliorare abbattere le frizioni e barriere di ingresso? Sicuramente non è applicabile una formula flat ne tantomeno una a peso perché diventerebbe assolutamente anti-economica. Una possibile soluzione arriva da un ristorante americano basato ad Austin, il Roll on Sushi Diner. La prima cosa che balza all occhio è la diversità dai menù tradizionali. Ad ogni pietenza non è associato un prezzo, ma unicamente un pallino differentemente colorato (giallo, verde, rosso) . In fondo al menù, una legenda indica il prezzo di ogni pallino. Questo trick aiuta ad attenuare (non ad abbattere) la frizione non associando immediatamente il dolore di un costo ad ogni pietanza, l’esperienza è posticipata e l’associazione resa indiretta. Inoltre si evita una parcellizzazione dei prezzi, riducendo tutto a quattro unità di misura. Resta da domandarsi se la scelta dei colori sia quella giusta, alcuni potrebbero avere valenza negativa come il rosso associato allo Stop di una semaforo. Potrebbe essere forse il caso di utilizzare icone brain friendly.

Personalmente continuo a ritenere migliore una formula mista. Nei videogiochi free to play, la tendenza è quella di offrire una doppia possibilità di pagamento. Da una parte micro-transazioni con range di prezzi divertisificati in base al quantitativo di moneta virtuale che si desidera e dall’altra una subscription periodica che garantisce un afflusso standard di moneta più eventuali plus. Così facendo è possibile convincere i nuovi utenti ed in generale quelli non paganti a effettuare la micro-transazione investendo anche solo 1 euro ed al contempo creare una formula con poco dolore agli utenti veterani o alto-spendenti che si troveranno scalati soldi unicamente una volta al mese.

Un menu in cui il prezzo cede il posto a pallini colorati

Al pari in ambito commerciale può avere molto senso tenere in piedi sia un menu di tipo a la cart in cui ogni oggetto ha un suo pricing per coloro che hanno una componente razionale molto sviluppata ed in grado di valutare correttamente il rapporto quantità/prezzo ed una All you can eat in grado di accontentare la fascia precedentemente descritta.

 

Inspired by: http://www.neurosciencemarketing.com/blog/articles/sushi-pricing.htm

Inizia l’era dei Clustomers nel Gaming

[Mi scuso per i tre mesi di assenza dal blog, una serie di sconvolgimenti nella vita privata e lavorativa mi hanno tenuto distante dal mio amore, il gaming] Sin dai suoi albori la creazione di esperienze ludiche ed online è stata affidata interamente alla libera creatività di designers. Figure spesso diventate mitologiche dotate di una penna e di un block notes in grado di intercettare e/o anticipare i gusti di massa dando vita a prodotti e servizi di successo. A loro spetta il compito di stendere completi documenti di design a cui il team di sviluppo dovrà strettamente attenersi. La proprietà, non potendo spesso rischiare enormi budget sulla scorta di semplici idee e intuizioni, si avvaleva sovente di strumenti quali focus group, passate esperienze similari, beta chiuse di prodotto per saggiare la bontà del progetto. Capirete bene che questo metodo di lavoro porta in sè una componente aleatoria e soggettiva altissima rendendo la percentuale di rischio sull’investimento notevolmente elevata. Questo modo di concepire il flusso di lavoro è ancora oggi, ahimè, molto in voga tanto nel mondo digital generico quanto nel gaming. Le metriche non vengono riconosciute come una parte fondamentale al pari dello sviluppo, design e marketing. Oggi, ancora più che in passato, questo approccio retrogrado è penalizzate perché il prodotto si ritroverà a competere con tanti altri che beneficiano del valore aggiunto apportato dagli analytics. Non stupitevi se la vostra sola idea, per quanto geniale, resterà nel limbo delle centinaia di migliaia di apps già presenti. A partire dal 2007, con rare eccezioni antecedenti, l’avvento di ecosistemi aperti e dispositivi always connected ha favorito l’inizio di un modo del tutto nuovo di fare design. E’ il paradigma “data driven”. Non più la figura del game designer visionario e sognatore che tira fuori dal cilindro soluzioni valide per l’intero lifecycle del prodotto ma una matematizzazione dei processi grazie all’introduzione dei data analytics. Aziende come Zynga, seguita a ruota da centinaia di altre, hanno compreso sin dal 2007 l’importanza che i comportamenti in-game di ogni singolo giocatore rivestono nel disegnare l’esperienza.  Ancora oggi c’è diffidenza, leggo spesso critiche a questo modo di fare gaming da parte di chi non comprende che le metriche non sono altro che un modo per avvicinare utenti e sviluppatori. Retention, life time value, churn rate, sticky factor, dau, mau, early lifecycle retention, sono termini fondamentali per aumentare le possibilità di dar vita ad un buon prodotto sostenibile nel tempo. Sono perfettamente consapevole che non è facile darsi una simile organizzazione, crearsi una piattaforma di analisi metriche in-house richiede tanto tempo e know how ed appoggiarsi a soluzioni già esistenti è molto dispendioso (siamo sui 5k dollari al mese per un servizio full). E questo non basta, bisogna reclutare un game data analyst coi coglioni ed in generale organizzare in modo specifico attorno a questa fase il team di lavoro. Credetemi, ne vale la pena! Migliaia di giochi su App Store, Google Play o Facebook restituiscono allo sviluppatore giga e giga di dati analizzati quotidianamente da un data analyst per essere trasformati in giornalieri/settimanali documenti di design dando vita ad un tipo di sviluppo ongoing in grado di riflettere al meglio le aspettative dell’utenza. Questa mole di dati, inizialmente poco leggibile su Kontagent piuttosto che su altri tools, si trasforma in meccaniche atte a creare maggiore engagement, retentions piuttosto che monetizzazione: dinamiche di gameplay, pop up, pacchetti di virtual currency fluttuanti in base al livello di gioco  etc etc… Nel corso del 2012 è andata affermandosi una ulteriore evoluzione del paradigma di sviluppo, inizia l’era dei “Clustomers“. Il termine nasce dall’intersezione dei due vocaboli inglesi customers (cliente) e clusters (segmentazione) e letteralmente significa segmentazione dell’utenza. Nel mondo gaming si intende la creazione di classi omogenei di utenza in base a specifiche abitudini di spesa. Analizzando i dati è possibile sin dalla prima settimana creare clusters a cui sarà veicolata una specifica esperienza di gioco pre-immaginando quali saranno i loro desideri, sogni e abitudini di spesa. Avere 5 classi non significa offrire loro 5 esperienze totalmente diverse, ma all’interno di un medesimo canovaccio una pop up potrà apparire prima o dopo, un oggetto essere incluso nello shop al prezzo x piuttosto che y e così via. Esempio esemplificativo: un gruppo sarà composto da utenti che non investiranno mai soldi reali nel mio sistema, sappiamo che sono una componente significativa nei prodotti free to play ed è fondamentale capire come bilanciare al meglio la loro presenza nel sistema. Sarà inutile riempirli di tricks e pop up reminder legati all’acquisto di oggetti e monete virtuale, mentre avrà molto più senso che quella pop up chiederà loro di condividere via social uno stream o invitare amici per proseguire. D’altro canto con questo design clustomers eviteremo di chiedere a heavy spenders di compiere azioni lunghe e noiose in-game per acquisire moneta. L’obiettivo ultimo di questo nuovo paradigma è abbattere il più possibile ogni frizione tra il giocatore ed il suo progredire nell’esperienza dando a ciascuno quello che realmente sta cercando. Aziende come Bigpoint hanno già aggredito pesantemente il tema con risultati notevoli.

Primacy Effect nella Gamification

Gli esperimenti condotti negli ultimi cento anni su essere umani e animali hanno dimostrato l’importanza del primo contatto/esperienza nei processi decisionali. La vita è un insieme di avvenimenti che mai avvengono in simultanea: in una concessionaria d’auto la nostra attenzione si sposterà in sequenza su una serie di autovetture, in un gruppo incontremo prima tizio e poi caio e così via. La prima auto o la prima persona godranno di una posizione cognitivamente privilegiata. Questa istanza, così irrazionale, è chiamata Primacy Effect.

Primacy Effect - esperimento gomme da masticare stazione di Boston

Presso la stazione ferroviaria di Boston, 207 viaggiatori furono avvicinati da un incaricato per partecipare ad un esperimento scientifico. Due pacchi di gomme da masticare molto simili tra loro per forma e peso furono mostrati in sequenza su un sostegno bianco. Nella prima opzione fu dato loro tempo di decidere quale pacchetto selezionare, nella seconda fu chiesto di scegliere in un secondo. Ebbene i risultati mostrarono che in caso di scelta razionale avvenne una sostanziale parità di scelta, mentre nell’azione istantanea il primo pacchetto visionato ottenne il 62% di preferenze.

Risultati test - il prodotto visto prima vince!

Quando ci troviamo in una condizione di scelta automatica, priva dell’interferenza della parte razionale del nostro cervello, il Primacy Effect gioca un ruolo fondamentale nel processo decisionale. Il primo prodotto visionato viene ricordato meglio, crea un attaccamento più forte, fornisce una associazione con se stesso, persuade più efficacemente e influenza maggiormente.

Nello sviluppare una strategia gamificata potremo tenere in considerazione questo nodo mentale per favorire l’accesso ad un’area/sezione/prodotto/azione da noi prescelta. Sarà fondamentale disegnare un flusso di navigazione in linea col behaviour desiderato ed una conferma ci arriva da un altro interessante esperimento di Alexander Felferning dal titolo “Persuasive Recommandetion: Serial Position Effects in Knowledge-Based Recommender System“. Un gruppo di potenziali acquirenti di tende da campeggio è stato esposto online alla visualizzazione di 4 tende, ognuna con peculiari caratteristiche, disposte orizzontalmente. I ricercatori han fatto in modo che l’ordine fosse variabile da persona a persona così da vederne le conseguenze.

I risultati confermano quanto già detto precedentemente. La prima scelta a sinistra è stata selezionata 2.5 volte più di ogni altra. Questo dato è significativo considerando che l’ordine di apparizione alle varie “cavie” è stato diverso dimostrando l’impatto che il Primacy Effect può avere sulle nostre scelte.

Come tutte le altre risultanze del neuromarketing e della gamification, queste tecniche sono da intendersi come un valore aggiunto all’interno di una strategia volta a soddisfare le esigenze intrinseche dei navigatori/giocatori. Sarebbe controproducente sfruttare il Primacy Effect per un link/prodotto in grado di soddisfare solo le esigenze del sistema ma non quelli della nostra customer base se si vuole creare azioni ripetute nel tempo.

Psicologia e Neuromarketing per creare un SI

Il nostro cervello ama i compromessi e quotidianamente la componente razionale media con il lato emotivo del cervello nel procedere con un acquisto, una donazione o un semplice click su un portale web. Azioni che ci sembrano istintive hanno alla base un continuo conflitto e dicotomia nelle cui pieghe gli esperti di Neuromarketing si stanno facendo strada per generare le azioni volute. In parte questa tendenza al compromesso è alla base del Decoy Effect, l’effetto esca ampiamente sdoganato nelle tecniche di vendita sia online che nei grandi centri commerciali. Spesso i depliant o servizi freemium online offrono all’utente la possibilità di scelta tra due o più opzioni, quest’ultime scientemente inserite per far emergere almeno una opzione più conveniente e di compromesso rispetto alle altre.

Un recente talk dello psicologo (termine molto restrittivo) Robert Cialdini ha introdotto una interessante case history e spunto di riflessione sulla capacità di trasformare un NO iniziale in in successivo SI. In un suo recente esperimento in ambito no profit è stato chiesto ad un gruppo di studenti universitari di donare 2 ore settimanali per due anni a favore di un istituto minorile. Il risultato? Solo il 16.7% ha accettato di dedicarsi al volontariato.

Dopo una stragrande maggioranza di NO, Cialdini ha immediatamente riformulato la richiesta chiedendo solamente due ore totali da dedicare al centro minorile di detenzione. Ebbene il tasso di adesione è triplicato.

I risultati iniziali dell'esperimento di Cialdini sul "volontariato"

Ma cosa è realmente successo? Sin dall’inizio l’obiettivo non era quello di ottenere 192 ore di volontariato gratuito ma solo quello di predisporre mentalmente gli studenti ad un futuro si. La tecnica consiste nel chiedere qualcosa di immensamente grande sapendo di ottenere un diniego per poi proporre una offerta concreta di fronte alla quale si è ormai mentalmente predisposti.

Entrano in gioco importanti fattori psicologici in questa sequenza NO/SI in larga parte legati alla Recipricità. Questo è uno stato d’animo fondamentale nelle nostre vite, regolando rapporti sociali. Pensiamo allo scambio di doni natalizi, la reciprocità del regalo è alla base del nostro vivere civile; se al mio compleanno un amico dona qualcosa mi sentirò obbligato a ricambiare. Nel caso specifico di Cialdini, lo studente dopo aver sbattuto la porta di fronte ad una proposta si sente moralmente più portato ad accettare la successiva a fronte di una pretesa ampiamente ridotta.

Questa teoria è convalida da una variante all’esperimento stesso in cui è stata offerta la doppia scelta sin da subito agli studenti: volontariato per 2 anni e volontariato per 2 ore. A rigor di logica nuovamente il 50% avrebbe dovuto optare per un SI ed invece solo il 25% ha accettato il volontariato. Questo dimostra l’importanza del fattore psicologico nel proferire un SI.

Nel mondo della gamification questo esperimento ci insegna a non avere paura delle mancate azioni da parte di utenti, trasformare i rifiuti in un terreno fertile per far compiere successivamente l’azione desiderata. Pensiamo all’acquisto di un qualsiasi bene/servizio in un portale online, inizialmente potremo vincolarlo ad una subscription pluriennale di fronte alla quale l’utente non avrà alcuna difficoltà a dire NO. Pochi secondi dopo una pop up offrirà lo stesso bene/servizio in versione trial gratuita ed a questo punto il cliente percepirà questa seconda opzione come un giusto compromesso da accettare.