Nel lontano 1898 Elias St. Elmo Lewis diede vita vita ad un modello di consumer marketing rimasto in auge per tutto il secolo scorso nonostante numerose modifiche ed adattamenti al progredire delle tecnologie e tecniche. Il suo “Purchase Funnel” (conosciuto anche come modello A.I.D.A.) seguiva l’intero viaggio del consumatore (forti analogie col player’s journey introdotto da Amy Jo Kim recentemente nei suoi speech ed ampiamente sdoganato nelle mie lezioni) dal momento in cui veniva a conoscenza di un determinato brand/prodotto fino all’atto di acquisto. Sintetizzando, secondo il pioniere americano, è possibile individuare quattro momenti cardine:
AWARENES: consapevolezza dell’esistenza del brand/prodotto
INTEREST: interesse attivo verso certi prodotti
DESIRE: Desiderio di entrare in possesso di quel prodotto
ACTION: atto di acquisto
L’immagine del modello a forma di imbuto non è casuale. Avanzando nel viaggio sempre più consumatori consapevoli del prodotto si perderanno per strada ed una piccolissima frazione di quelli al via giungerà alla meta, intesa come atto di acquisto. E’ una legge tanto ovvia quanto matematica, ogni step rappresenta una barriera per molti e maggiore sarà la sua altezza meno incisivo sarà il successo commerciale. Amplificare la propensione del consumatore in ciascuna fase è l’unica strada per giungere al risultato finale.
Questa teoria nasce in un contesto di monetizzazione totalmente diverso. Qualsiasi servizio, ancora fino ad una decina di anni fa, era basato sul “pay per use”. Ti rechi in un negozio e paghi il pacco di pasta prima di poterlo utilizzare, andavi sul sito di RealArcade e pagavi 10 euro per scaricare un gioco online oppure ti recavo sull’area giochi del tuo operatore telefonico e pagavi 5 euro per arricchire il telefonino di un bel java game. L’ultima decade è stata foriera di un processo di smaterializzazione, interi segmenti di mercato come cinema, musica, fotografia hanno visto morire vecchi colossi in favore di start up diventate miliardarie. Kodac ha ceduto il passo alla fotografia digitale, Blackbuster a servizi come Netflix e Megavideo, le catene musicali ad iTunes. Il processo è ancora in atto nell’industria del gaming dove al modello tradizionale “compra il packing del gioco per xx euro” si sta sempre più sostituendo un business model free to play partito dal mondo online orientale per contagiare il mondo social e mobile gaming.
Il risultato finale è la quasi totale scomparsa del vecchio paradigma, nelle start up digitali è impossibile rintracciare modelli di monetizzazione “in advance”. Compreso il quadro, è facile intuire come una rielaborazione teorica di quel modello sia necessaria. Per esperienza diretta come founder del più grande game publisher digitale italiano -DigitalFun- e avendo avuto la fortuna di collaborare con Electronic Arts Mobile e Kobojo, ho contezza diretta del tasso di conversione in questo “funnel” in ambito facebook game ad esempio. Meno del 5% dei nostri utenti attivi mensili (MAU) effettua una transazione economica nell’arco del mese. Un numero così basso, sostanzialmente condiviso tra tutti i publisher, rende fondamentale la creazione di larghi bacini di utenza ed i conseguenti processi di acquisizione cliente. Eppure questo non basta, un ampio numero di MAU necessità di mantenere un tasso di engagement/retention costante perchè solo i più “appassionati” tra loro diventeranno utenti paganti.
Approcciando la realizzazione di un gioco digitale free to play piuttosto che un progetto gamificato è possibile suddividerlo in:
ACQUISITION: La fase di acquisizione cliente spintanea (advertising, serviz di scambi di visibilità, cross promotion) o spontanea (discovery mediante la piattaforma stessa, strumenti virali)
RETENTION/ENGAGEMENT: In questa fase bisogna ingaggiare e fidelizzare il nostro utente spingendolo a rientrare frequentemente rendendogli emozionante il progredire nel sistema.
MONETIZATION: L’ultimo e fondamentale gradino per la sostenibilità di un progetto freemium. In questa fase l’utente effettua le sue micro-transazioni spendendo soldi reali per acquistare moneta virtuale, servizi, virtual goods ed altri beni in-game.
Per facilitare la comprensione e la scalabilità delle operazioni, la società americana Kontagent (stò personalmente lavorando con loro su un social game dove abbiamo deciso di utilizzare il loro tool di analytics) ha rilasciato un interessante whitepaper in cui individua le TOP 7 Social Metrics sintetizzate nell’immagine in basso.
L’articolo odierno si focalizza sulla creazione di una customer base in fase di lancio progetto, crescita che si può ottenere attraverso due strade strettamente compenetrate: budget marketing e viralità generata dagli stessi utenti. Alle due strade è possibile associare una metrica specifica, rispettivamente il costo acquisizione cliente (CAC) e il viral factor (tante le varianti di nome).
Per esperienza personale sono rarissimi i casi in cui è possibile creare un bacino di utenza significativo senza investire 1 euro in advertising, questo vale in ambito social piuttosto che mobile. Se qualche speranza la si può avere quando si intercetta inizialmente un trend/piattaforma, basti pensare a Facebook fino al 2010 quando era possibile viralizzare al massimo un app, nelle fasi mature dove la concorrenza qualitativa e quantitativa è ai massimi livelli diventa necessario preventivare uno sforzo economico significativo. Per dare una idea attualmente è necessario investire circa 3 milioni di dollari in facebook adv per raggiungere 1 milione di utenti attivi giornalieri (D.A.U.) nella propria app worldwide o proporzionalmente 300 mila dollari per 100.000 (dati Social Gaming Summit). Questa rappresenta la soglia minima per iniziare discorsi di monetizzazione su un scala significativa. All’acquisizione spintanea si affianca, fortunatamente, una spontanea. Questa presenta numerose variabili legate alla qualità del prodotto, alla ottimizzazione della strategia virale, alla piattaforma per fornire dei dati analitici. Ma per non lasciare troppo nel vago il discorso, si stima che nel 2011 su piattaforma Facebook il viral factor fosse di 0.5 per utente. In altre parole ogni 2 utenti entrati nel nostro gioco o applicazione sono in grado di portarne un altro attraverso meccanismi come “invita amico e ottieni xx coins, stream remunerativi in bacheca, logiche di cooperazione (aggiunti un vicino per progredire più velocemente), virtual goods e tanto altro ancora.
Riepilogando il tutto con 300.000 dollari è prevedibile portare nella propria applicazione facebook circa 150.000 utenti attivi giornalmente.
Partiamo col CAC, il costo per acquisizione cliente. E’ schematizzato nel lato sinistro della seconda immagine ed indica per l’appunto il budget direttamente speso per portare nel nostro sistema un utente. Calcolarlo è fondamentale perchè ci fornisce un dato immediato sul costo speso a fronte del futuro guadagno. Detto brutalmente se io spendo 4 euro per prendere un customer e questo nel suo ciclo vitale (LFT-lifetime value) ne genera 1 andrò sicuramente in perdita. Il discorso non è propriamente così lineare perchè un utente pur spendendo poco potrebbe avere un alto viral factor portando dentro l’applicazione numerosi suoi amici generanti revenues. Ma ora non voglio complicare troppo la spiegazione.
CONSIGLI GESTIONE CAC:
- Dotarsi di una piattaforma complessa di analytics sia essa di terze parti come Kontagent o sviluppata in house. Essere in grado di tracciare il ciclo vitale dell’utente acquisito per capire la sua storia nell’app, se arriva a monetizzazione e il suo viral factor.
- Decidere il budget e capire a quali segmenti demografici rivolgersi principalmente (uomini, donne, età, ubicazione geografica, passioni, interessi…)
- Partire con una campagna soft in country dove il CAC è notoriamente più basso
- Assegnare nomi standard alle campagne per una facile comparazione dei dati. Es MyApp_Male_Ita_18-22
- Fare il più largo uso possibile di A/B Test, ovvero una stessa campagna pubblicitaria/landing page riproporla al bacino in almeno 2 varianti per scegliere poi la più efficace.
E’ il momento di passare al viral factor, molto spesso l’unica speranza per le start up digitali senza budget marketing. Matematicamente è frutto del rapporto tra gli utenti influenzati a compiere una determinata azione ed il numero di utenti complesso che l’hanno performata. Se io invio 100 inviti contenente un virtual goods e 20 di loro accettano guadagnando l’oggetto virtuale il viral factor sarà di 0.2. In piattaforme come Kontagent ogni azione virale implementata contiene un tracking così da poter verificare l’efficacia dell’implementazione.
Dare consigli in merito sarebbe forviante, troppe le differenze di ambito in ambito e di piattaforma in piattaforma. Dall’esperienza maturata in questi anni, ho notato che è necessario un lavoro giornaliero sui dettagli. Una volta capite le macro-logiche virali da inserire nel progetto bisogna lavorare a contatto con le metriche. E’ un continuo di modificare immagini, testi, virgole e calibrare il rapporto azione/beneficio. Perchè io utente dovrei invitare i miei amici, condividere sui social network un messaggio, farmi promotore di una vendita? Sicuramente il livello di engagement è una risposta valida ma molto spesso si ragiona per utilità più concrete. Si vada Groupon che regala buoni acquisto a chi invita amici, si pensi ad una social app che mi concede l’accesso al livello superiore solo se ho 10 amici, oppure sblocco un badge dopo aver compiuto determinate azioni.
Che dire il tempo a disposizione è scaduto, torneremo sull’argomento la prossima settimana anche perchè fra poche ore parto per Barcellona dove si terrà il Mobile World Congress 2012 e la testa è già li tra apps e nuovi telefonini in grado di rivoluzionare ancora le nostre vite.
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