L’ingresso nel XXI secolo ci ricorda che è trascorso quasi mezzo millennio da uno dei momenti di svolta della nostra storia. La rivoluzione industriale, a partire dal 1700, ha riscritto il modello sociale, economico e l’idea stessa di società alla quale fummo lungamente abituati nei secoli precedenti. Una società basata su agricoltura, artigianato e commercio si ritrovò nel giro di pochi decenni trasformata anche grazie al susseguirsi di invenzioni come la macchina a vapore e l’elettricità. Le fabbriche, simbolo di questo nuovo periodo, consentivano una produzione di grandi quantità di oggetti a basso costo per mezzo di una sistematica organizzazione di uomini e macchine. Ogni prodotto era uguale all’altro, ogni processo identico, ogni giornata lavorativa scandita dal perpetrarsi di azioni standardizzate. La difformità, veniva bollata negativamente ed etichettata come materiale di scarto. Efficienza, efficientamento, e utilitarismo come principi ispiratori di un periodo storico in forte distacco rispetto ad un passato largamente incentrato sul rapporto diretto tra maestranze e committenze; ogni prodotto, anche il più semplice e d’uso quotidiano, rientrava nella unicità.
Ad una analisi attenta e disincantata, larga parte delle idee e moti delle rivoluzioni industriali, e successivi adeguamenti, ancor oggi rappresentano le fondamenta della società contemporanea. Giornalmente ci scontriamo con strutture rigide, piramidali, dall’alto verso il basso, avulse dal contesto, disciplinate e burocratizzate.
Eppure siamo sette miliardi e mezzo di individui nel mondo. Ciascuno di noi è portatore sano di corredi genetici, storie, aspettative, necessità e desideri profondamente differenti l’uno dall’altro. Una pindarica varietà che quotidianamente si scontra con la standardizzazione di larga parte delle esperienze quotidiane. Una serialità che ha contribuito a creare un profondo corto circuito tra le aspettative delle nuove generazioni e la realtà in cui poi si ritrovano a vivere, i cui danni rischiano di essere irreparabili se non si inverte immediatamente la rotta. Ho avuto occasione di tratteggiare le nuove generazioni per questa testata nell’articolo “Quale cultura per i nativi digitali”.
Cosa accadrebbe se i luoghi culturali, le città, la scuola, le aziende ripartissero dalla idea di coinvolgimento come motore primario di ogni processo?
Una premessa è doverosa ed è alla base di questo articolo. Coinvolgere i pubblici significa, prima di tutto, rinunciare ad una parte della sovranità e potere nelle mani di decision makers, politici, direttori, curatori e managers. E’ doloroso, ma non esiste altra strada per ripensare dalle fondamenta il nostro mondo e renderlo un posto migliore per individui che nell’ultimo cinquantennio hanno visto mediamente crescere il loro quoziente intellettivo di 15 punti e hanno raggiunto un titolo di laurea in un numero maggiore che nel resto della storia dell’uomo. Persone straordinariamente dotate ed intelligenti, che ogni giorno creano e condividono su Instagram, Youtube, Twitter milioni di idee e progetti, quanto scarsamente coinvolte a scuola, sul lavoro o durante una visita museale. In ambito scolastico così come in quello lavorativo, oltre il 70% delle persone è poco o scarsamente motivato. Cosa accadrebbe se riuscissimo a recuperare questo capitale umano dando loro gli strumenti per esprimersi e partecipare attivamente in un mondo orizzontale e non più verticale?
La terza rivoluzione industriale, di cui internet rappresenta un cardine, offre – paradossalmente – la possibilità di riportare al centro delle politiche, pubbliche e private, l’essere umano con le sue istanze ed emozioni. Un mondo in cui persone differenti possano imparare, interagire e partecipare ad una qualsiasi esperienza in maniera diversa in base alle proprie motivazioni e set cognitivi e culturali. Nuovi strumenti in grado di favorire le due P del coinvolgimento: partecipazione e personalizzazione.
Più delle mie parole, il video “A vision of students” realizzato dal professore Michael Wesch insieme a 200 studenti del corso di demo-entropologia dell’Università americana Kansas State rende plastiche alcune chiavi pratiche di cambiamento in ambito didattico, estendibili ad ogni altro aspetto quotidiano: learning by doing, collaborazione, feedback in tempo reale, esperienza personale e one to one, multitasking, aperta alle tecnologie. Non più una lavagna, ma tante lavagne quanti sono i partecipanti!
Abbiamo una grande responsabilità collettiva. Dobbiamo lasciare alle nuove generazioni un mondo in cui poter pienamente vivere, esprimersi ed essere protagonisti scardinando quella sensazione di apatia e lontananza che ha contribuito a far aumentare nell’ultimo cinquantennio il tasso di suicidi nel mondo del 60%. In un mondo in cui il concetto di proprietà sta diventando molto più labile, si è sempre meno propensi ad acquistare case o auto e addirittura, per estensione ampia del concetto, diminuiscono drasticamente le persone che si uniscono in matrimonio.
E’ necessario uno spostamento dell’asse dall’ “io” al “noi”, un superamento della trasmissione dei saperi dall’alto verso il basso a favore di nuovi modelli che prevedano un superamento di “professori” e “direttori” a favore di facilitatori ed “enablers”. Non bisogna avere paura di confrontarsi con l’evoluzione della nostra società e con i nuovi strumenti che le rivoluzioni industriali portano in dote.
Ora o mai più!