Dopo una assenza bisettimanale dovuta, almeno questa volta, a problemi tecnici legati al servizio di hosting del blog approfitto del ritorno online per segnalare un pezzo che riguarda l’industria dei videogiochi ed, ovviamente, il sottoscritto.
Nell’edizione cartacea del 23 Aprile de “La Stampa” è apparso un interessante pezzo, a firma di Giuseppe Bottero, dedicato al futuro dell’industria dei videogiochi. Il taglio dato dal giornalista è insolito per l’Italia dove la maggior parte della stampa si dedica a quotare i rapporti annuali rilasciati dall’AESVI (associazione editori software videoludico italiani) senza dedicare tempo a comprenderli al di là dei numeri. Giuseppe mi ha chiesto di dire la mia sul tema, partendo dai numeri negativi che stanno segnando nell’ultimo biennio il mercato “fisico” dei videogiochi, ovvero quei titoli giocabili su Console e PC e basati su supporti fisici acquistabili in un punto vendita.
Ve ne riporto uno stralcio invitandovi a leggere il pezzo completo su La Stampa.
” I dati appena diffusi dall’Aesvi (Associazione di categoria che rappresenta i produttori di console, gli editori e gli sviluppatori di videogiochi in Italia) non lasciano dubbi: nell’ultimo anno il settore dei videogiochi arretra del 7.1% (nel 2010 era a -2.3%) e il giro d’affari scende sotto il miliardo . Il mercato che soffre di più è quello delle console, minacciate dalla concorrenza di tablet e smartphone, che nel 2011 fa segnare un allarmante -11.7%.
Ma il moltiplicarsi di tavolette e telefonini intelligenti, da solo, non basta a spiegare quello che sta succedendo. «La parola chiave è gamification», dice Fabio Viola, scrittore e sviluppatore di software, che usa un termine inglese per descrivere una quotidianità che somiglia sempre di più ai videogame e non lascia spazio a svaghi ad alto tasso di tecnologia. E’ un gioco comunicare, è un gioco seguire una lezione, è un gioco perfino mettersi in auto- un occhio al navigatore e l’altro al bluetooth- e raggiungere il posto di lavoro. Una volta a casa, chi ha più voglia di accendere la playstation?
«In un mondo del genere dedicarsi alla console è diventato un lusso», dice Viola. Per un ragazzo degli Anni 90 il Nintendo e l’Atari rappresentavano un tuffo nella tecnologia. Oggi lo smartphone è un’abitudine. Risultato: non c’è più un futuro digitale da inseguire e saghe fantastiche e realtà virtuali lasciano spazio a quelli che il «New York Times» definisce «stupid games». Semplici, praticamente elementari, hanno conosciuto un boom senza precedenti. Mentre i colossi del settore, da Microsoft ad Electronic Arts, puntavano ai titoli da «tripla A», l’equivalente dei blockbuster al cinema, migliaia di sviluppatori indipendenti lanciavano i nipotini di Tetris, «una sfilza di rosari digitali – scrive il saggista Sam Anderson – con cui possiamo passare il tempo nei momenti di estasi o ansia economica, politico o esistenziale“.
Chi ha acquistato il mio libro e segue il blog conoscerà il mio punto di vista, già riassunto in un articolo apparso ad Aprile dal titolo “Mercato italiano videogiochi 2011“.
Pensa che si andrà verso un’estinzione progressiva ma inesorabile dei giochi più complicati? Voglio dire, resisteranno solo sui PC del nocciolo duro di appassionati o magari per qualche console particolarmente innovativa? Il mondo sarà conquistato dagli “stupid games”? E’ interessante perchè secondo la sua analisi si sta chiudendo un cerchio, stiamo tornando per l’appunto ai giorni di Pac Man e Tetris, inseriti in un contesto differente e che ci circonda costantemente. Mi pare strano pensare però che un videogioco possa essere considerato solo come una commodity dove è ininfluente la qualità – o meglio, la complessità – del gioco stesso, in quanto fungerebbe solamente da mezzo per una fuga dalla realtà. Quando la realtà diventa essa stessa ludica in molti suoi aspetti, non avremmo più bisogno di videogiochi complessi. E’ questo che implica la sua teoria?
La mia domanda di fondo è “Quali sono i connotati di un gioco di qualità?”. Si sentono risposte diverse: grafica, complessità, piattaforma di pubblicazione, fatturato generato, tempo speso dai giocatori, voto della stampa, premi vinti e la lista può andar a lungo avanti. Io credo che il gioco debba cercare di essere il più facilmente fruibile e trasversale possibile ed in questo l’industria tradizionale ha fallito nei suoi primi 30 anni di vita. Non nascondo che sono il primo a subire il fascino di produzione AAA come Modern Warfare 2 ma sono al contempo consapevole che mia sorella ed i miei genitori non gli dedicherebbero 1 minuto del loro tempo per una serie di ragioni legate alla complessità di avviare il gioco, curva di apprendimento lenta, upfront economico, tempo a disposizione…
Detto questo non penso che i titoli complessi siano destinati a morire, semplicemente diventeranno sempre più marginali e di nicchia almeno da un punto di vista di utenti che li utilizzano.