Parlo sempre più spesso di Emotional Design come disciplina che raccoglie decenni di studi teorici e pratici in ambito gaming (gamification), psicologia, neuroscienza e scienze comportamentali. Questi campi, ad oggi lontani gli uni dagli altri, tanto possono insegnarci nel processo di disegnare una esperienza basata sull’insorgenza di emozioni nell’interlocutore al punto da stimolare/creare/modificare comportamenti: atto di acquisto, fidelizzazione, engagement, collaborazione etc etc.
Una delle sfide più avvincenti per un game designer è dar vita ad un gameplay mai troppo facile o troppo difficile in relazione alle abilità acquisite dal giocatore. Tenere ingaggiato qualcuno nel sistema è complesso, il design messo in campo dovrebbe evitare, quasi sempre, di generare emozioni come frustrazione, ansietà o noia. L’esperienza sul campo dell’industria dei videogiochi ha evoluto gli studi teorici dello psicologo Mihály Csíkszentmihályi incentrati sul Flow, flusso o confort zone nel quale immergere l’utente per creare engagement. Per approfondimenti vi invito a leggere un mio specifico articolo sul Flow.
Questa immagine, una delle tante attinenti al tema, schematizza il viaggio del giocatore sempre all’interno del flow channel. Il designer è riuscito a bilanciare l’esperienza mantenendo un rapporto positivo tra livello di sfida e livello di abilità. Lo schema in basso dei due è quello teoricamente migliore perchè in grado di creare picchi di sfida alternati a momenti di stasi sempre all’interno di una confort zone. Per dare una idea concreta pensiamo all’horror game Silent Hill. Momenti estremamente carichi di emozioni ed eccitamento (l’apparizione di un nemico, il disvelamento di un indizio, il progressivo avvicinarsi di un rumore, l’infittirsi della nebbia) si alternavano a fasi di “relax” incentrate sulla pura esplorazione. Questi continui picchi alti e bassi hanno contribuito alla creazione di un legame viscerale tra prodotto e consumatore.
La facilità o difficoltà con la quale assimiliamo qualsiasi stimolo è chiamata in psicologia PROCESSING FLUENCY. E’ un effetto con profonde ripercussioni in ambito di design, marketing ed advertising e ci spiega come la nostra mente reagisce di fronte ad imput catalogati come semplici o difficili da raccogliere.
Due distinti gruppi di studenti universitari americani sono stati sottoposti a due pubblicità simili ma non identiche promosse da BMW:
GRUPPO 1: “Bmw o Mercedes? Sono tante le ragioni per scegliere BMW. Indicane 10!”
GRUPPO 2: Bmw o Mercedes? Sono tante le ragioni per scegliere BMW. Indicane una!”
I ricercatori, guidati da Michaela Wanke, hanno scoperto qualcosa di molto interessante a seguito di un questionario sottoposto ai due gruppi circa le preferenza tra le due marche soprattutto in relazione ad un possibile acquisto futuro.
E’ emerso che il gruppo 1 è meno incline a preferire/acquistare una BMW rispetto al gruppo 2. Ma come mai questo differente comportamento di fronte a due pubblicità similari in cui a cambiare è solo l’ultima sentenza?
La difficoltà nell’elaborare 10 motivazioni pro BMW ha instaurato una associazione mentale negativa tra utente e marchio. Di contro il gruppo 2 è riuscito facilmente ad individuare almeno una peculiarità che il competitor non ha con un processo mentale molto più intuitivo e lineare.
Questa è la teoria della “Fluency” applicata al marketing, rendere facile la preferenza aiuta la propensione del soggetto al brand. Capire quali sono i fattori che determinano una azione o il suo deferimento ha profondi impatti sulle strategie di marketing.
Ad un gruppo di studenti universitari è stato chiesto di completare un sondaggio strutturato come segue:
– Quante matite puoi comprare con 1 dollaro?
– Quante puntine da disegno puoi comprare con 1 dollaro?
– Quante graffette puoi comprare con 1 dollaro?
Gli studenti sono stati divisi in due gruppi, al primo è stata assegnata la classica banconota da un dollaro, mentre al secondo una moneta da collezione anch’essa dal valore di un dollaro.
Il gruppo A ha ritenuto di poter comprare maggiori quantità di quei 3 oggetti rispetto al gruppo B. La semplicità con la quale si processano i dati, ancora una volta, influisce sull’esperienza di acquisto. Più ci si trova in una confort zone (banconota standard) più è FLUENCY il processo decisionale rispetto ad una situazione nuova e inattesa (vecchia moneta da 1 dollaro).
Semplicità diventa una parola chiave da perseguire nel lancio di un nuovo prodotto/brand. Diversi studi dimostrano che noi umani ci leghiamo/ingaggiamo più facilmente a nomi e parole semplici da pronunciare e memorizzare rispetto a quelle complesse.
Gli scienziati sociali Alter e Oppenheimer hanno studiato il rapporto tra la Fluency del nome e le performance (ad 1 giorno, 1 settimana, 6 mesi ed 1 anno) di 89 società che si sono quotate tra il 1990 ed il 2004 al New York Stock Exchange.
Un ipotetico investitore con 1000 dollari collocati in azioni nelle 10 aziende coi nomi più semplici e lineari dopo un anno avrebbe guadagnato $333 rispetto ad un collega posizionato sulle 10 aziende coi nomi meno fluency.
E’ paradossale, ma la facilità con cui si scrive o si pronuncia il nome di una azienda, il suo acrononimo e la capacità di immaginare/assimilare il logo sono driver importanti nei behaviors dei nostri interlocutori.