L’articolo che segue è tratto dall’editoriale del nostro Fabio Viola per il prestigioso magazine cartaceo ArtTribune.
“Esiste una forma d’arte fruita annualmente da 29 milioni di italiani in cui modellazione, architettura, illustrazione, musica e narrativa convergono per dar vita ad opere in grado di emozionare e coinvolgere un pubblico sempre più eterogeneo.
I video-giochi, a soli 40 anni dalla loro nascita, sono diventati non solo la principale industria creativa mondiale con per fatturato e tempo speso, ma anche una delle più complesse e, meno comprese istituzionalmente, espressioni culturali del nostro tempo. Su una nuova tipologia di tela, completamente digitale, i creatori esprimono idee, sviluppano modelli creativi e linguistici, raccontano storie e restituiscono visioni del mondo. E lo fanno dando al fruitore la possibilità di agire e reagire rendendo la produzione autoriale in qualche misura liquida, ed in questo profondamente diversa da tutte le altre espressioni artistiche in cui la meta-riflessione resta ad un livello interiore e mai estetico. Una interiorizzazione dell’esperienza che trova riscontro nell’utilizzo di pronomi personali nei racconti di coloro che han sperimentato un video-gioco: ” “ho salvato la principessa”, “ho esplorato il mondo”, “ho parlato con un personaggio”. Non è forse questa una delle direzioni principali del dibattito culturale sempre più incardinato attorno a vocaboli come partecipazione attiva, “audience engagement” e “co-curation”?
Opere come “Journey”, “Ico”, “Assassin’s Creed”, “That Dragon, Cancer”, “To The Moon” “No Man’s Sky”, e diverse altre migliaia, hanno commosso, emozionato, meravigliato e sfidato intellettualmente milioni di individui nel mondo. Titoli che manifestano plasticamente la velocissima evoluzione, un passaggio dalla pittura rupestre all’arte rinascimentale avvenuta in pochissime decadi. Nonostante i dati restituiscano una figura del giocatore con età media sui 37 anni e certifichino le donne over 50 come uno dei bacini a maggior crescita, aleggia ancora lo stereotipo del passatempo per giovanissimi, un linguaggio in grado di dar sfogo, attraverso la tecnologia ed il digitale, ad emozioni primordiali connesse al bisogno fisico di gioco. Critiche comprensibili, se consideriamo che la generazione di artisti che ha dato vita ai primi video-giochi è ancora in vita.
Numerosi governi nazionali, dagli Stati Uniti alla Polonia, hanno legislativamente stabilito l’inclusione del video-gioco come patrimonio culturale da tutelare e valorizzare anche mediante agevolazioni fiscali. E’ lecito immaginare nell’immediato futuro la progressiva presenza di questa nuova forma espressiva all’interno delle grandi istituzioni, le americane MoMa e Smithsonian hanno per primi capito il valore artistico e di design includendoli nelle collezioni permanenti. Sono anche nati i primi musei specializzati in questo linguaggio, penso al Vigamus di Roma o al Computerspielemuseum di Berlino e milioni di collezionisti nel mondo spendono anche decine di migliaia di euro per portarsi a casa alcuni titoli.
Includere il video-gioco come decima forma d’arte (Beylie) aprirebbe nuove opportunità, favorirebbe la contaminazione tra generi culturali diversi, l’alfabetizzazione del pubblico ed, al contempo responsabilizzerebbe il processo creativo aiutando il movimento a prendere coscienza degli impatti . I tempi sono maturi?”